“tre domande, tre poesie”
“Versi illuminati da una luce abbacinante, non sempre piacevole, poiché la consapevolezza acuta del mondo non può donare serenità assoluta. Il dolore è un maestro e la poeta lo segue su sentieri impervi e interni claustrofobici, senza paura e senza l’orgoglio che appartiene a gli stolti. E così si snocciolano i testi della raccolta delineando una biografia interiore che è soprattutto paesaggio.”
(dalla postfazione Francesca Genti)
In che modo la (tua) vita diventa linguaggio, qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “Le rimanenze”?
Alcune cose, molti lavori, nascono da delle scintille; la spinta di un attimo che tutto illumina e porta con sé rotolando la scrittura di un’opera intera. Per questo mio ultimo libro non è andata proprio così. Un inizio dilatato che è stato buono per darmi consapevolezza, per farmi accorgere della struttura di quello che stavo scrivendo, un avvio in tono bassissimo, quasi casuale, non indirizzato a nulla. Mi sono ritrovata dopo quasi un anno ad avere tra le mani una raccolta che si portava dietro una crescita umana, era senza volerlo lo stradario delle mie azioni. Quando questo accade, quando nasce una consapevolezza, è necessario guardare le radici, la partenza da cui si sviluppa la pianta ed io questo ho fatto per permettere la nascita del libro. Sono stata attenta a non rompere questo incantesimo, passami il termine, che in qualche modo aveva reso possibile la trasposizione su carta di molte delle cose vissute forse negli ultimi due/tre anni. Parlo per questo di tempo dilatato, è probabile che la scintilla si sia accesa quando mi sono sentita aderente a quelle parole, quando ho capito che potevano diventare un corpo unico e portare un nome non facile, che ricorda continuamente il passato, un passato buono però che può restare. Se lo scrivere è figlio della necessità di fermare, diliscare l’evento per riuscire ad ottenerne il commestibile, il fruibile, tutto ciò che non viene eliminato, ciò che resta, Le rimanenze appunto, non sono altro che la sostanza insindacabile di un avvenimento, la pura materia poetica.
Riporteresti una poesia (di altro autore) nel quale all’occorrenza ami rifugiarti, rivelandoci cosa “muove” la tua “preferenza”?
se fossi un numero, ma non sei un numero
se avessi vene, ma non hai vene
se ogni stilla del tuo pianto fosse un pianeta
o un sole, o un universo.
tu sei uno gnomone, una corteccia di salice, l’altra faccia dello specchio
il grugno truccato di una ganza
o il Giordano. errato.
poiché tutte queste cose sono parole e le parole non entrano nella carne
o nel cemento o in un grape. e quand’anche fossero immagini
errato sarebbe, perché non sarebbe la biglia, ma la sfera
il cubo, non il prisma cubico. e se lo spazio-tempo
e la plastilina con cui hai giocato quand’eri piccolo
cosa descriverà le tue ossa, le ghiandole, i tuoi organi interni?
se fossi un cervello, ma non sei un cervello
se fossi me stesso, ma non sei me stesso
e nemmeno la morte, né l’esistenza. e un errore che pensi a te, perché tu
similmente ai tachioni, parti dal punto
in cui il mio pensiero si arresta.
la luce mi sembra approssimativa: piccoli ciottoli dorati
che scivolano sul tuo viso come sabbia; sconcia mi sembra la galassia
simile a un granello di polline nel tuo sopracciglio. io stesso, una briciola di grasso
che sfrigola un istante sulla piastra, cercando di conoscerti.
forse il mondo può essere descritto
piega su piega, come le statuine tanagra; forse la teoria
delle catastrofi, forse CANTOR AREPO
però io, raggomitolato come un topolino nel tuo splendore
da Chrystal Palace per il popolo, sbadigliando come un idiota
fra i tuoi bidoni di gioielli, chiedo –
cosa descriverà le rughe del mio volto?
se tu traspirassi, ma tu non traspiri
se esistessi, ma tu non esisti
se creassi un mondo con milioni di stagioni, con diecimila dimensioni
poi lo distruggeresti con fuoco e con ghiaccio…
caro fantasma, mostrati! parlami, vedo che mi vuoi parlare!
ma le tue parole sarebbero uomini o rametti di albicocco
così come i tuoi silenzi sono pietre.
ti leggo meglio nel petalo di una fucsia
nelle venature lilla dell’orecchio della mia gattina
nel ricordo delle ghiacciaie refrigeranti di una volta. poiché tu
sei tutto ciò che amo e tutto ciò che odio e tutto
ciò che mi e indifferente; se fossi stato una femmina
le tue ossa si sarebbero formate nella mia pancia; così, sento come palpiti
e come ti muovi nel mio cranio; ti sento guardare
attraverso i miei occhi e accarezzare con le mie dita e inghiottire con il mio esofago.
sistemato dentro di me come in un mezzo d’assalto
tiri leve di comando, pigi su dei pulsanti
mentre io mi muovo e sorrido, piango e sogno
al tuo ordine, per bontà tua… magari tu
mi smonti come un bimbo smonta un’automobilina
per vederne la molla e il volante e le ruotine dentate… fatto a pezzi,
con la vernice scrostata, cosa descriverà
il nulla, il mio nulla?
se fossi un pattume di stelle
se fossi una feltratura di mondi…
Sono ossessionata delle immagini, l’unico modo per comunicare senza essere fraintesi è il parallelismo, farti conoscere ciò che voglio passando per quello che tu già conosci, così che un suono simile possa essere riconosciuto. Dar modo di esplicitare un’esperienza personale attraverso la descrizione di qualcosa che è alla portata di tutti, rendere il vivere universale, gli dona un respiro ampio. È così da sempre, nella scrittura, nella vita. Il dolore è un coltello piantato nel petto idealmente, “sconcia mi sembra la galassia, simile a un granello di polline nel tuo sopracciglio” per rifarmi proprio a Mircea Cărtărescu. Mi avvicino a questo autore quando non ho più parole, quando ho la sensazione che qualcosa può essere detta in modo migliore, lui mi conferma sempre che in effetti è proprio così. Ci sono poesia lette decine di volte ma sempre nuova, che mi affascinano ogni volta.
Il poema dell’acquaio
Mircea Cărtărescu
Nottetempo
Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a riportare tre poesie dal tuo libro, “Le rimanenze”; di queste scegline una per condurci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.
So dire di ottobre
la struttura delle parole
l’odore della stanza quando taci
e dici con gli occhi le vocali che non riconosco
che non conosco, come non so
l’orario della tua fame e l’orario della tua sete
come non conosco il passo
le scarpe nel cassetto che tieni pulite
la memoria che usi per ricordarmi
avendomi, pur non avendomi mai avuto.
—
Ho un vuoto
nei giorni apatici
tutti a strillarmi in faccia
la felicidad, ballare la salsa
nessuno che mi dica con un poco di pietà
resta ferma, cara
che qui tocchi in punta.
—
Agosto è tre decine di domeniche
trenta suoni che conosco a memoria
monosillabi secchi a prevalenza di consonanti
che sbattono, sbattono, sbattono.
Ho accumulato tutta la stanchezza
delle ore pomeridiane in provincia
come nonna che mi tocca la testa
e cura il coniglio albino
gli cava gli occhi veloce;
è l’uscita che non trovo
è l’abbigliamento inadatto.
Il primo brano è quello che desta sempre più curiosità. L’ho scritto un pomeriggio di primo autunno in cui già faceva freddo. È nato così, velocemente, non c’ho mai rimesso mano come mi capita sempre più spesso. Dalla testa alla carta nel giro di una presa di coscienza, è nato così uno dei miei brani che più amo. Volevo, scrivendo, confermare di non sapere nulla, era giorni complessi pieni di domande. Nebbia in testa, pochi slanci, niente di morbido. Di quel mese, di quel periodo in effetti, mi era amica solo la struttura delle parole, qualcosa di quadrato, asettico, utile a scrivere ma che poco mi aiutava a capire. – So dire di ottobre -, conosco di ottobre, niente che abbia a che vedere con ottobre, solo le parole nella pancia da sempre che cerco di elaborare. Come sostenevo prima, partire dalle radici. Quando si intrattengono rapporti senza che ci sia presenza fisica, si va a perdere quotidianità; i piatti nel lavandino, i bicchieri sopra il tavolo, – come non so l’orario della tua fame e l’orario della tua sete -. Vengono meno le abitudini, non c’è nessun orologio condiviso che scandisca il medesimo tempo. Eppure, quel poco che si conosce rimane, è permeante, stupefacente se si pensa ad una conoscenza zoppicante che non beneficia della parte fisica. Cosa si ricorda di qualcosa che non si è conosciuto fino in fondo? – La memoria che usi per ricordarmi / avendomi, pur non avendomi mai avuto. –
*
Gilia Fuso – nata a Perugia nel 1988. Ho pubblicato le raccolte poetiche “E dentro luccica” (Miraggi edizioni 2016), e “Tu non dismetti mai le cose” (Eretica edizioni 2018). Molti testi editi e inediti sono comparsi online e su riviste specializzate. Il libro “Le rimanenze” ha avuto menzione speciale di merito nel premio poesia Città di Grottammare.