“Dal deserto rosso” di Maria Borio. Poesia scarlatta nello “spazio [vibrante] delle radici”.

Tra preziosi “i quaderni de la collana”, a cura di Maurizio Cucchi, per le edizioni “Stampa 2009”, troviamo “Dal deserto rosso” di Maria Borio (nella foto di Dino Ignani), con le opere di Linda Carrara. “La compattezza materica del suo tessuto espressivo si offre con singolare densità, tutta minuziosamente da esplorare, in una straordinaria serie in felice accumulo di sensazioni e circostanze”. Abbiamo scelto di introdurre la nostra intervista con la poesia interrogativa che schiude la raccolta:

 

Sono un punto solo nel deserto rosso:
oggi è questa la mia dimensione, un punto
che non ha lunghezza, larghezza, profondità,
caduto dalla parte più alta del cielo su una terra
piena di silenzio e pura improvvisamente.
Ti scrivo da una zona rossa, ed è questa la verità:
i confini sono tracciati, il rosso ha riempito lo spazio,
vuoto, neutro, senza uscita, e tutti sono come me,
punti soli, senza illusione, nella prima primavera
del millennio che al tempo sta cambiando la faccia.
Ti scrivo e da questa stanza sussurro che se un punto
non ha dimensioni è perché forse le ha unite tutte in sé?
Pensarsi è unirsi – mentre la notte e il giorno
hanno un unico colore e impariamo a pensarci –
e un bene, come mai, nuovo?

 

Qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “Dal deserto rosso”? Perché questo titolo? Forse per “dire” che muovendoci dal “deserto” possiamo ricondurci al senso più autentico (unitario) dell’esistenza?

Durante il 2020, nel periodo di isolamento che abbiamo condiviso, ho iniziato a pensare a una traslazione metaforica di ciò che vivevamo. La simbologia del colore rosso mi ha portato al film di Antonioni Deserto rosso, del 1964, che parla dell’alienazione rispetto al sistema capitalistico. Il mio intento è stato portare la sfera politica verso una verticalità. Queste poesie sono piccole epistole lanciate dal deserto a un destinatario che può essere reale o immaginario. Ognuna è lunga quindici versi ritmici, come una forma estesa di sonetto, che offre un’architettura spaziale ai messaggi. Immaginate di ritrovarvi soli e, a un certo punto, di avvertire qualcosa che suggerisce il senso più autentico dell’esistenza: è un’esperienza che può collegare io e altro, microcosmo e macrocosmo, realtà e sogno. La parola ‘rosso’ fonicamente potrebbe rimandare a vis, roboris, che mi dà l’idea di qualcosa di radicale. Il deserto, allora, è lo spazio delle radici, del fondo autentico di noi stessi, in cui non si può mentire davanti a ciò che siamo e in cui gli eventi del mondo appaiono nudi.      

“in questa cosa laica che è il mondo” cosa può (e cosa ha potuto per te) la poesia?

Credo che avere uno sguardo laico verso le cose corrisponda a volerle conoscere intensamente nella loro autenticità. Un senso laico comporta un esercizio alla coscienza e alla maturità, che può far vivere anche il suo opposto, un trasporto mistico per certe esperienze. Il religioso porta all’‘assoluto’, il laico al ‘relativo’. La poesia è una compenetrazione di amor sacro e amor profano. Essa unisce l’emozione e il pensiero: la sfida sta nel farli entrare – attraverso la ricerca sulla forma – in sinergia.   

Ha “senso” quella poesia che parla ignara, ignorando il mondo che abita?

Penso a due massime del pensiero universale: “so di non sapere” di Socrate e “non so di sapere” di Lao-Tze. Sono prospettive opposte e speculari. Forse la poesia riesce a esistere in un confine intermedio: il logos e il controllo (“so”) tendono al proprio contrario, l’intuizione e l’abbandono (“non so”) tendono al logos. Noi, in fondo, risuoniamo sempre con il mondo che abitiamo e che ci abita.    

Leggendola, la tua poesia, la si sente erompere da profondità inconsce, puoi svelarci alcuni segreti (consci) della tua “creatività”?

A volte mi immagino come un’entità trasparente, fluida, osmotica. Sono una forma vuota che può raccogliere e accogliere. C’è tanta complessità intorno a noi. La mente possiede capacità irrazionali e razionali, in contraddizione o in armonia. Vorrei riuscire a sintonizzarmi con questa complessità e uscire dal mio limite. Provo a seguire rapporti fra suono e senso in poesia, perché credo che salvino il linguaggio dalla retorica, dalla sterilità, nutrono l’autenticità e lo fanno rinnovare come un sismografo nel tempo. La creatività è un sismografo.

La poesia (nel suo farsi continuo) è l’eterna riabilitazione?

È l’eterna riabilitazione di una dimensione umana, ma non direi in senso escatologico: un modo per riattivare una coscienza umana quando il disumano sembra invadere ogni spazio e ogni prospettiva. Non so se questo possa tradursi in utopia. Quando si cuciva a mano capitava che l’ordito si inceppasse. Quando si scrive capita di lasciare refusi. La poesia è come quella frazione di discontinuità, di errore, di devianza, rispetto a un incedere che può portare al raffreddamento dei nostri sensi, del nostro essere presenti in ciò che facciamo, di uno scopo. Ci si punge con l’ago e si vede che siamo fatti di sangue. Nella nostra fragilità c’è la nostra realtà. La poesia rinnova la possibilità di essere autentici.      

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