Maddalena Lotter, “Atlante di chi non parla”, ascoltare è scendere «a certe profondità del mondo».

Ascoltare (“gli altri esseri che prendono la parola”) è scendere «a certe profondità del mondo». È abitare «la vicenda secolare/ di stabilità e lacerazione». È riconoscersi «in una solitudine immensa». Parliamo del libro “Atlante di chi non parla” di Maddalena Lotter (nella foto di Valentina Merzi), pubblicata da “nino aragno editore”, nato sul terreno della precedente silloge, “Questioni naturali”, sensibile a fenomeni quali catastrofi naturali o eruzioni vulcaniche, pubblicata nel “XIV Quaderno italiano di poesia contemporanea” a cura di Franco Buffoni (Marcos y Marcos, 2019). “Nucleo radiante che consiste qui nell’ossessione di dare voce «a chi non ha avuto voce sulle scelte che hanno condotto il nostro pianeta a diventare quello che è» e a chi se anche l’ha avuta non l’ha più: nostri morti, umani e animali, ma anche i grandi mammiferi e cetacei estinti, che con la loro fine hanno fatto spazio ad altro – a noi – migrando in un non-essere di eco e tracce”, scrive Laura Pugno nella nota introduttiva. Maddalena Lotter testimonia sapendo che quello che ha «visto prima di parlare/ non viene centrato da nessun linguaggio». I verbi (parlare, esplorare, frequentare, confermare, accorrere, avvistare, contendere, distanziare, compiere, sperare, accumulare, migrare, desiderare…) sono leve che vincono ogni resistenza azionando il pensiero, «ma chi, di fronte al possibile/ davvero si sarebbe fermato?».

Qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “Atlante di chi non parla”?

L’Atlante è nato sul terreno già preparato dalla precedente silloge, Questioni naturali, che è stata pubblicata all’interno del XIV Quaderno italiano di poesia contemporanea di Marcos y Marcos, nel 2019. Se qualcuno va a leggere i testi di quella silloge, vede più chiaramente il percorso che mi ha portata a scrivere questo secondo libro: l’urgenza principale, che condivido anche con molti altri autori, è quella di spostare il punto di osservazione da uno sguardo antropocentrico a uno più diffuso, più attento direi, che cerca di far parlare il “resto del mondo”, cioè tutti gli altri che lo abitano. Questa ricerca, nei testi delle Questioni naturali si manifesta attraverso l’ascolto di catastrofi naturali o di eruzioni vulcaniche. In Atlante di chi non parla troviamo, invece, proprio degli altri esseri che prendono la parola.

In che modo la (tua) vita diventa linguaggio?

In maniera molto spontanea e da me, spesso, non richiesta. A un certo punto sento che forse ho qualcosa da dire. Può passare anche molto tempo prima che la ‘materia da dire’ si sia addensata nei miei pensieri… anche anni. Ed è bellissimo così. Io sono una persona lenta, come le balene di cui racconto nell’Atlante.

La poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile?

Certamente, direi che è da sempre una delle sue peculiarità.

La poesia può colmare la pensosa solitudine del poeta? Può risolvere la “vicenda secolare/ di stabilità e lacerazione”?

Mah. A volte penso di sì e a volte penso di no. A volte, quella solitudine che tutti percepiamo (non solo i poeti!) non è in alcun modo colmabile. Per quanto mi riguarda, quella solitudine, quella “vicenda secolare / di stabilità e lacerazione” ci parla del non sapere perché siamo qui, e cosa ci sarà dopo, e quale sia il senso del nostro attraversamento su questa Terra.
Alla fine, queste sono le domande che mi ponevo da bambina e che rimarranno senza risposta. Più che sola, esse mi fanno sentire sperduta, a volte ‘insensata’, non direzionata verso qualcosa di chiaro. Per me, dunque, la scrittura ha sicuramente il potere di dare senso a quello che vedo e sento nello stare in vita, e quindi, in qualche modo, allenta questa morsa di essere viva senza sapere come mai lo sono.

La forma quanto incide sulla “verità” della parola poetica? E il “suono”?

Non è possibile prescindere dall’aspetto formale, quando si parla di ciò che la poesia fa. Non esiste un confine tra forma, suono e i significati che la poesia produce. Tutto contribuisce ad animare l’opera.

Qual è stato, ad oggi, il dono più prezioso ricevuto in dono dalla poesia? 

Il dono del silenzio e della lentezza, visto che, come dicevo, la necessità di scrivere si presenta solo quando è veramente il momento, e dunque senza fretta.
Inoltre, la scrittura mi ha regalato il piacere di poter fare qualcosa di bello completamente da sola.
Infine, grazie alla poesia ho conosciuto certe persone a cui sono molto affezionata. Quindi, i doni preziosi sono tre.

Per concludere salutando i nostri lettori, ti invito a scegliere una tua poesia dal tuo libro “Atlante di chi non parla” – (riportala gentilmente) – e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

Nella notte, in albergo,
vengono a visitarmi in sogno
tutte le ampolle del museo.

In ognuna, debitamente conservato
in un liquore rossiccio, c’è il cervello di
qualcuno
o una mandibola o l’intestino tortuoso.

Vogliono parlare con me,
di com’era allora, e prima ancora
nell’alba azzurra del Paleocene.

Ho scelto questo testo perché in qualche modo contiene anche quelli che fanno parte della ‘serie’ del museo (la sottosezione si intitola appunto: Quaderni dai musei, e fa parte della seconda parte del libro, intitolata Storie di animali grandi), e dunque mi sembra un testo rappresentativo di un percorso, di alcuni pensieri che si sono affacciati mentre costruivo il libro.

Negli anni ho avuto la fortuna di visitare alcuni dei più bei musei di Storia naturale, d’Italia e d’Europa (tra questi, cito quello di Bologna, bellissimo, e quello di Parigi, senza eguali). I musei di Storia naturale sono una mia passione sin da quando ero bambina, e di questo devo ringraziare mio papà, che nel tempo libero si dedica all’entomologia, e in generale alla conoscenza del mondo animale.
Al museo di Parigi sono stata alcuni anni fa e ho avuto la fortuna di poter vedere anche l’unico scheletro al mondo di T – Rex conservato nella sua interezza (in quel periodo, lo scheletro , partito da New York, stava facendo il giro dei musei europei); in un’ala del gigantesco museo, allestita in una specie di serra bellissima, c’erano infiniti esemplari di animali impagliati – una pratica piuttosto triste, figlia di un’altra epoca – e di organi di animali conservati in ampolle, fluttuanti in quello che io ho definito “liquore rossiccio”. Sono rimasta dentro a quelle stanze per ore, affascinata e allo stesso tempo impietrita da quel panorama sinistro. È effettivamente assai sinistro conservare corpi di animali e parti del loro essere per mostrarli a un pubblico di non addetti ai lavori. Mi sono immaginata che quei corpi e quegli organi prendessero di nuovo vita e, tornando da un altro tempo, decidessero di parlare proprio con me.

Da quella sensazione di orrore, e di stupore al contempo, è nato il testo che ho riportato qui sopra e tutti gli altri appartenenti alla sezione dei musei. 

 

(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

 

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