Oscurità come brandizzazione dell’ironia e spaesamento: Demetrio Marra e Valentina Murrocu

In questa puntata di Chiedimi ancora ad essere messi a confronto sono due giovani poeti che hanno all’attivo un’opera d’esordio. Entrambi hanno studiato fuori sede. Il movimento e lo sradicamento, o la migrazione, sono dunque fattori che hanno innestato o sviluppato in loro una percezione di sé e del mondo. Il movimento determina un campo di forze, per Valentina Murrocu, «sono forze immanenti […]: ciò significa che sono nelle cose, ovvero che fanno parte della realtà; la regolano, ma non la superano, non la trascendono». La sua oscurità è uno sguardo che riconosce, trema e si allontana. Quella di Demetrio Marra è invece intessuta d’ironia «e la brandizzazione della stessa, la ripetizione come forma di riempitivo, a tal punto che CB nell’Amleto è giunto a dire Avere e non Essere». Il suo moto, o la malinconia del moto, è segno e corrispondenza.
Buona lettura!

Rossella Pretto e Marco Sonzogni

 

L’ultima opera poetica edita di Demetrio Marra è Riproduzioni in scala (Interno Poesia Editore 2019); quella di Valentina Murrocu è La vita così com’è (Marco Saya Edizioni 2018).

 

CINQUE DOMANDE AI POETI: DEMETRIO MARRA (1995)

1.
In uno dei mottetti per la sua musa girasole, Clizia, Eugenio Montale parla di «segno» che «s’innerva» e lo descrive con queste parole: «sangue tuo nelle mie vene». Cosa o chi s’innerva in te arrivando a scorrere nelle vene della tua scrittura?

È una domanda davvero difficile, perché dici “cosa” o “chi” e non “come”, che forse è per me più intellegibile (solo un po’). Potrei insistere sul sangue e dire “terra”, cioè “radici” in quanto sradicate, quindi movimento, da A a B, migrazione – il segno è un movimento, la celebrazione o la malinconia del movimento (spesso la immobilità/mobilità del treno è per me un segno, uno stimolatore). Potrei dire che “s’innerva” anche la relazione, citando un poeta della mia generazione, le “corrispondenze”, cioè l’accorgimento di un legame, fuori dall’ordinario o proprio nell’ordinario, ma talmente automatico da rimanere “bestia” e non “anima” (se stiamo a sentire De Maistre).

2.
In una delle canzoni più celebri interpretate da Johnny Cash, the man in black dice di vedere un’oscurità («I see a darkness»). Quale oscurità ti è capitato di vedere e come ne hai scritto?

Nessuna oscurità, più la lontananza da questa oscurità. Siamo purtroppo bombardati dalla luce, dall’esposizione, come quel faro che proprio all’altezza della mia finestra fa quasi giorno anche alle due o alle tre di notte, poi, solo quando il sole comincia a schiarire il cielo, si spegne. Ho dovuto provvedere appendendo un telo da mare a fantasia fenicotteri, con scotch di carta, perché la proprietaria di casa rimanda la sistemazione con le tende. La mia oscurità è forse questo, un telo nero a fantasia fenicotteri, ovvero l’ironia (ironia amara, come tanta era nella piccola silloge pubblicata per Atelier, quando liquidavo la mia bisnonna dicendo «È svanita con la misera / paghetta. La memoria si paga / a lire cinquantamila settimanali») e la brandizzazione della stessa, la ripetizione come forma di riempitivo, a tal punto che CB nell’Amleto è giunto a dire Avere e non Essere. Magari ci rendessimo conto della “vera” oscurità, dell’assenza di luce tra spazi cosmici, ammirata per centinaia di anni, o della notte senza inquinamento luminoso, delle grandi città.

3.
Nel discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Nobel per la letteratura, Bob Dylan, ricordando il suo primo punto di riferimento artistico, l’amico Buddy Holly, dice che sembrava esserci in Buddy qualcosa di permanente («something about him seemed permanent») e che riusciva a trasmettere qualcosa che gli faceva venire i brividi («he transmitted something» … «and it gave me the chills»). C’è un poeta che ti fa sentire così quando lo leggi e perché?

Giorgio Caproni. Pochissimi mi dànno i brividi nonostante li si ri-legga e ancora e ancora. Giovanni Raboni, soprattutto il primo. Sinceramente, non ti so dire perché, fa anche parte di quel palesarsi grande, come accade con alcune canzoni che riascoltate duecento volte il risultato non cambia: Zombie, Money for nothing, capolavori anche popolarissimi, ma che non esauriscono anzi penso che nella ripetizione si rafforzino come per un rituale. Ecco ricordo che quando avevo la camera venti in Borromeo, quattro anni fa, ho appeso sulla parete dello specchio tutto il Congedo caproniano perché volevo impararlo tutto (ancora non del tutto missione compiuta) e lo leggevo asciugandomi i capelli. Non che allora fossi Tarzan, ma adesso ho un serio principio di calvizie. La questione della “emotività”, del “brivido” in poesia è complessissima, perché non è condizione sufficiente né necessaria, è una somma di relazioni, una zona di incontri tra cultura personale e percezione del testo, eccetera. Andrebbe studiata.

4.
Un altro Premio Nobel per la letteratura, Seamus Heaney, ha detto che Eminem ha creato un senso di ciò che è possibile iniettando un voltaggio nella sua generazione («he has created a sense of what is possible. He has sent a voltage around his generation») non soltanto con il suo comportamento sovversivo ma anche attraverso la sua energia verbale («He has done this not just through his subversive attitude but also his verbal energy»). C’è stato/c’è un poeta che per te corrisponde a questo identikit?

Per la mia generazione non so, sinceramente. Come ci fosse un recupero eterogeneo e anche un po’ confusionario (lo trovo molto positivo). Per me Ottieri, l’Ottieri dei poemetti che ha un po’ evitato io mi schierassi dalla parte del puro lirismo e invece mi maltrattassi un po’, anche traducendo la cosiddetta poesia-pensiero in poesia auto-analitica, come quella sua “auto-psicanalitica”, poi tutta intrisa di flagellazione e ironia.

5.
Scegli una tua poesia e ci spieghi perché ti rappresenta?

Mitologie

Non finisco i libri, ogni tanto, è il mio
inconfessabile, su Marte come
dischi volanti compiranno
certamente tutti i gesti di una determinata
loro altezza, su Marte che è
la Terra stessa, ovviamente. Nemmeno
Sebald, Ottieri, Barthes. Non ho letto
tutto Caproni, non ho il fisico
da lottatore che serve, né polpacci da ballerina.
Più Raboni, in realtà, come prima, di quando
sono dove non sono mai stato –
dietro le edizioni obsolete, gli esami,
gli articoli da correggere, i pasti
da non saltare, la zona celeste dei miei pigiami
e del mio foraggio, ultimamente
sveglio in mezzo leggere
Guido ma quell’incipit: dovrei farmi
forza e andare avanti. In rapporto tra
male e rimedio come strattona
Il giorno che l’avrebbero ucciso,
Santiago, miti d’oggi! Molto diverso da caso
a caso, mi spiego: riappendo
poster, oggi, sono da mesi giorni interi
a terra, caduti: lo scotch perde aderenza –
sia una metafora nuova per la
camera tutta lì, imbellettata, ovvio. Gli angoli
di un calendario si piegano, il legno delle sedie
fuori posto. La lavatrice in potenza, dispersa
in terra e la busta dei bianchi, l’angolo
a valanga sul pavimento.
                                        Con tutto questo
sto prendendo tempo. È un assedio,
qualcosa complotta alle spalle. Il lampadario emette
luce a intermittenza al centro della camera. Anche questo
– di cosa, poi – è metafora. Sul trasparente
dell’armadio e sullo specchio due incandescenze;
per cosa lente accensioni, altrettante, per cosa
si esaurisce il filamento, nessuna efficienza
luminosa sulle tre gocce dell’anticamera da bagno.

Ho scelto Mitologie perché allude alla ragione de-mistificatoria che ho sempre tentato di mettere a testo. Non solo: è un programma, e ne faccio davvero pochi; è una poesia giocata molto sul riutilizzo di materiale, sia esso direttamente da testi o da realtà paratestuali; gioca sul respiro lungo, coerentemente con gli ultimi miei lavori, realizzando anche il frequente cambio d’inquadratura.

Demetrio Marra ph Enzo Penna. 

 

CINQUE DOMANDE AI POETI: VALENTINA MURROCU (1992)

1.
In uno dei mottetti per la sua musa girasole, Clizia, Eugenio Montale parla di «segno» che «s’innerva» e lo descrive con queste parole: «sangue tuo nelle mie vene». Cosa o chi s’innerva in te arrivando a scorrere nelle vene della tua scrittura?

In una poesia contenuta nel mio libro d’esordio (La vita così com’è, Marco Saya Edizioni, 2018) e intitolata Baricentro parlo di tre, anzi quattro forze che percepisco come in resa plastica. Tutti gli oggetti, le proprietà, gli esseri viventi (quella che in filosofia viene chiamata la collezione degli enti) sono collocati, infatti, in un campo di forze. Cosa ha a che fare questo con la domanda che mi è stata posta? Non possiamo rendere conto di queste forze se non quando compiamo delle operazioni. Ad esempio, quando si scrive, quando io scrivo, si “innervano” delle forze. Si può dire che quando il soggetto dice io scarichi delle forze, degli impulsi, per seguire la lezione nicciana della Nascita della tragedia. Sono forze immanenti, per usare, di nuovo, un termine preso in prestito alla filosofia: ciò significa che sono nelle cose, ovvero che fanno parte della realtà; la regolano, ma non la superano, non la trascendono. Penso alle leggi della fisica, alla fisiologia, ma anche alle dinamiche sociali.

2.
In una delle canzoni più celebri interpretate da Johnny Cash, the man in black dice di vedere un’oscurità («I see a darkness»). Quale oscurità ti è capitato di vedere e come ne hai scritto?

Un mese fa mi è capitato di veder uscire dal reparto di Psichiatria del Policlinico Le Scotte di Siena, la città in cui vivo, una ragazza poco più che ventenne. Non so dire se camminasse verso me o fissasse il vuoto mentre camminava. Una parte di me desiderava aiutarla, un’altra parte, non meno reale, voleva colpirla perché non la comprendevo. Mi era oscuro, ammesso che ci fosse, il senso di quella figura che guardavo con un misto di orrore e spaesamento. Mi erano oscure le cause di quel disagio, vedevo insomma il suo disagio nel mio: ho smesso di guardare.

3.
Nel discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Nobel per la letteratura, Bob Dylan, ricordando il suo primo punto di riferimento artistico, l’amico Buddy Holly, dice che sembrava esserci in Buddy qualcosa di permanente («something about him seemed permanent») e che riusciva a trasmettere qualcosa che gli faceva venire i brividi («he transmitted something» … «and it gave me the chills»). C’è un poeta che ti fa sentire così quando lo leggi e perché?

Anne Sexton, perché aumenta il senso di appartenenza e, insieme, la potenza. Appartenenza è un termine che rimanda ad un verso di Unknown Girl in the Maternity World. Scrive Anne Sexton: «You sense the way we belong», che può essere tradotto con “senti l’appartenenza”. È qualcosa che ha a che fare con il bisogno di riconoscere una genealogia, di sentirsi parte dell’intero, è qualcosa di permanente. Quanto alla potenza, mi riferisco a ciò di cui parla Nietzsche, ad esempio, nell’Anticristo e nei Frammenti postumi: è buono ciò che aumenta la potenza e, cioè, ciò che espande la vita. Quando leggo Anne Sexton, insomma, si verifica in me questo doppio movimento.

4.
Un altro Premio Nobel per la letteratura, Seamus Heaney, ha detto che Eminem ha creato un senso di ciò che è possibile iniettando un voltaggio nella sua generazione («he has created a sense of what is possible. He has sent a voltage around his generation») non soltanto con il suo comportamento sovversivo ma anche attraverso la sua energia verbale («He has done this not just through his subversive attitude but also his verbal energy»). C’è stato/c’è un poeta che per te corrisponde a questo identikit?

Non ci sono poeti sovversivi, ci sono poeti più o meno buoni. Un poeta è buono se, come detto sopra, aumenta la potenza. Un poeta è meno buono se deprime questa potenza. Per esteso, questo significa che chi legge subisce una modificazione del quantum di potenza, per rifarmi, di nuovo, a Nietzsche. Questo processo va di pari passo con il riconoscere sé stessi in ciò che si legge, ci si riconosce. Un buon poeta, che ho letto per la prima volta nel 2012, è stato Wallace Stevens.

5.
Scegli una tua poesia e ci spieghi perché ti rappresenta?

Non c’è una poesia che mi rappresenti, in assoluto. Una poesia, la mia poesia, al limite, vuole comunicare qualcosa, una parte di verità, se vogliamo. Il testo Baricentro, che ho già nominato e ho scritto nel 2014, è un testo che vorrebbe dire qualcosa. Ho scelto di non correggere la forma in cui questo testo si presenta sia perché è un testo che, a volte, mi parla ancora, sia perché questa forma rimanda alla grammatica mentale originaria che ha dettato il testo. É un testo che parla di forze, di oggetti, di conflitti.

Baricentro

Percepisco ora tre forze
come in resa plastica ed io non
so trovarne il baricentro non
so come possa io farle collimare e fisso
la macchia verde sul corpo nudo in tensione come
la vergogna che fingo di provare verso questi oggetti – il bicchiere
vuoto, la candela, la luce della stessa attraverso
il bicchiere – o me in relazione ad essi non
so se sussistano o stiano per una convergenza
degli sguardi o delle stesse tre forze – ne aggiungo
una quarta, me stessa ampliata dal riflesso: è non
poter negare di avvertire il conflitto
che mi è immanente o non
volermi opporre essendo maggio e avendo tu scelto – proprio me,
me, qui. É non sapere cosa mi comporti
il renderti cosa fra cose quando sento la vita espandersi e mi
compiaccio se vado troppo oltre e ti calpesto
sotto la trama di eventi che ora, qui, me redime – e non respiro.

Valentina Murrocu ph Rosalba Morena

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