tre domande, tre poesie
Renato Fiorito (nella ph di Eduardo Fiorito) è scrittore, poeta e animatore culturale. Laureato in Economia all’Università di Napoli, è stato dirigente della Banca d’Italia. È autore dei libri di poesia: “Andante con pioggia” (2019 – Terra d’ulivi edizioni), 2° classificato al Premio Albero Andronico 2020, “Andromeda” (2017 – Ladolfi editore), vincitore del Premio “Terre di Liguria 2018”, e “La terra contesa” (2016 – Puntoacapo Editrice), premiato alla IV Edizione del Premio “Sulle orme di Leopold Senghor Leopold”, “Legami” (2015 – Lepisma Edizioni). Sue poesie hanno ricevuto il primo premio alla: V Edizione del Premio Internazionale di poesia ”Di verso in verso”; IV Edizione del Premio Letterario Internazionale di poesia “Priamar”; I Edizione del Premio di poesia “Pingaria”; XII Edizione Premio letterario internazionale “Città di Martinsicuro”. Sue poesie sono presenti su moltissime riviste italiane e straniere sia cartacee che on line. Come narratore è autore dei romanzi: “Tradimenti” – 0111 Edizioni – Salone del Libro di Torino del 2009 – classificatosi 3° alla IV Edizione del Premio “Città di Recco” e 3° alla XII Edizione del Premio “Val di Vara”; “Ombre” (2011), 2° alla XII edizione del Premio “Mondolibro” e 2° al Premio “Via Francigena” 2011. Al romanzo è stato, inoltre, attribuito il Premio della Critica al Premio internazionale “L’integrazione culturale attraverso la letteratura” organizzato dal Centro Ecuatoriano di arte e cultura di Milano. Ha fondato e gestisce il blog letterario “La Bella Poesia” www.labellapoesia.info nel quale vengono segnalate opere poetiche interessanti, riservando una particolare attenzione ai poeti contemporanei non ancora famosi. Collabora alla redazione della Rivista quadrimestrale internazionale di cultura poetica e letteraria “Menabò”. È Presidente del Premio Internazionale di Poesia e Narrativa Don Luigi Di Liegro, indetto dalla Fondazione Don Luigi Di Liegro.
Qual è o quale dovrebbe essere (dal tuo punto di vista) la lingua ideale della poesia, la forma quanto incide sull’essenzialità della parola poetica?
La poesia è una creatura mutevole e inafferrabile, la sua lingua è il canto, canto che viene dalla musicalità stessa delle parole, dal loro ritmo, dall’incastonarsi l’una dopo l’altra in una sequenza armonica che, una volta trovata, resta immodificabile, poiché nulla si può aggiungere o togliere senza danneggiare il verso. In essa le parole sono restituite alla purezza del suono, alla essenza del loro significato, diventano levigate, lucide come sassi di fiume, mai sovrabbondanti o banali, alludono più che descrivere, associano cose lontane col filo misterioso che intesse l’universo. La forma poetica è dunque essenziale quanto il suo contenuto poiché la bellezza di una poesia sta nella sua armonia. Una volta Ungaretti disse di amare i poeti che cantano, ma spiegò che quello che cercava non era l’endecasillabo o il novenario ma il canto della lingua italiana e che quando ascoltava poesie che tradivano questo canto aveva un moto di disapprovazione. Anche per gli antichi greci la poesia era melos e logos: cioè musica e discorso, tanto che le composizioni poetiche venivano accompagnate dal suono della lira, da cui appunto deriva la parola “lirica”. Del resto Saffo era una cantante e Omero era forse un cantore che girava di strada in strada, anche se delle loro canzoni sono stati tramandati solo i testi. Nella poesia contemporanea c’è una grande libertà di forma, ma resta immutata l’esigenza di armonia, perché ciò che un poeta vuole trasmettere non è la consistenza materica delle cose, né il bagaglio di conoscenze che c’è dietro, ma la musica interiore che lo ispira, musica che a volte chiamiamo anima, a volte poesia. Anche io prediligo i poeti che prestano attenzione all’armonia e usano registri comunicativi in grado di trasmetterla, che mettono in gioco non la loro scienza ma il loro cuore, perché non è l’ampiezza della cultura, l’erudizione, l’analisi critica meticolosa, che accende corrispondenze elettive, ma la condivisione del sentimento universale della vita.
Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo (di altri autori) nel quale all’occorrenza ami rifugiarti, rivelandoci cosa “muove” la tua “preferenza”?
Gli autori che amo sono tantissimi: da Foscolo a Leopardi, da Prévert a Neruda, da Ungaretti a Hikmet. Ciò non in base a un criterio oggettivo di valore, che non sarei in grado di individuare, ma perché sono entrati nella mia vita, sui loro versi ho maturato le mie sensibilità e a loro chiedo soccorso quando il sentimento non trova più le parole o le parole non hanno sentimento.
Rispondo quindi alla tua domanda ricordando una famosa poesia di uno di questi poeti, Nazim Hikmet, che si intitola “Non è un cuore”:
“Non è un cuore perdio, è un sandalo di pelle di bufalo/ che cammina, incessantemente,/ cammina/ senza lacerarsi/ va avanti/ su sentieri pietrosi.// Una barca passa davanti a Varna/ «Ohilà, figli d’argento del Mar nero!»/ una barca scivola verso il Bosforo./ Nazim dolcemente carezza la barca/ e si brucia le mani.“ (da “Poesie d’amore” Mondadori editore – traduzione di Joyce Lussu)
L’imprecazione con cui si apre la poesia esprime subito con una sola immaginifica pennellata la disperazione del poeta, il suo vagare senza meta per strade straniere in un esilio che non prevede ritorni. Ma ancora più commovente è, secondo me, la chiusa apparentemente distraente della poesia in cui lo sguardo del poeta si volge verso il mare e vede scivolare nella luce abbagliante del Bosforo una barca. Il saluto che rivolge ai marinai risuona nel silenzio come un richiamo fraterno e rompe il senso della sua solitudine, confortandone il dolore. L’inaspettato cambiamento di tono è di una bellezza commovente. La barca che se ne va suscita il suo desiderio di evasione e risponde all’ansia di essere riconosciuto fratello da altri uomini, ancorché sconosciuti, la sua anima accarezza la barca e ne resta bruciata. Poesia universale, come deve essere la grande poesia, perché nei suoi versi c’è l’esilio che riguarda ognuno di noi, l’esilio da ciò che amiamo, dal bello sempre vagheggiato, dal paradiso perduto. È dunque questa una delle poesie che sono entrate a far parte del mio immaginario e che a volte mi vengono in soccorso sotto mentite spoglie per suggerire nuove immagini. Così, ad esempio, una volta scrissi: “Ho affilato il coltello/ e tagliato gli ormeggi/ che imprigionano il volo/ per cercare in città prati fioriti/ e tirar calci a palloni di cristallo/ con compagni di giochi,/ a rubare la luce/ al sole che svapora/ nell’inganno della sera/ e con un colpo secco/ prendere infine il largo/ sul barcone che attende/ il suo viaggio.// Dove vai, marinaio?” (dalla poesia “Bugie” in “Legàmi” – Lepisma edizioni”), e, in un’altra occasione, pensando alla barca di Nazim, ho scritto: “Una barca alla fonda toglie l’ancora/ si mette di traverso/ e prende il vento./ La seguo un poco/ fin quando non scompare./ Poi penso ad altro/ ed è già domani.”. Il seme di una grande poesia, infatti, non smette mai di dare i suoi frutti, anche quando cade su un terreno poco fertile.
Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a riportare tre poesie dal tuo bellissimo “Andante con pioggia” (perché questo titolo?); di queste scegline una per condurci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quando “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.
Andante è un tempo musicale, né troppo allegro né troppo triste, come la vita quando la si guarda da lontano e gli anni si sono accumulati senza troppa felicità e troppi dolori. La pioggia è l’imprevisto, il contrattempo, ciò che modifica le abitudini quotidiane, l’acqua che cade e pulisce. Mi è quindi sembrato un titolo adatto a riassumere la mia vita, non come storia o bilancio, ma come intreccio di emozioni di cui si compone l’anima. Sono saltati perciò gli usuali parametri di tempo e di spazio e la distinzione tra sogno e realtà, dato che la vita mescola sempre le cose, con il sogno che piega e spiega la realtà e non viceversa. Il filosofo Henry Bergson, premio Nobel per la letteratura, ha sostenuto che il tempo non è un susseguirsi lineare di attimi ma si muove in moto circolare: tutto il passato vive nel presente, tutto il presente è disegnato dal passato, lo spazio si annulla nella dimensione onirica che rende prossimo ciò che è lontano. A questa idea di circolarità allude anche la struttura data ad “Andante con pioggia”: i capitoli sono infatti otto, perché in matematica l’8 coricato rappresenta l’infinito, l’universo in cui tutti siamo immersi, e ogni capitolo è formato da nove poesie, in quanto il numero 9 si riproduce sempre nelle moltiplicazioni e certifica la stabilità e l’instabilità della materia che, secondo Pitagora, si scompone e ricompone continuamente. Il nove è inoltre un numero di confine, l’ultimo dei numeri essenziali, poiché per andare oltre bisogna cambiare visione, aggiungere un’altra cifra, sperimentare il nuovo, come succede alle gestanti che dopo nove mesi danno vita a un nuovo uomo. Dunque è il numero augurale della rigenerazione e della rinascita, così come la silloge vuole essere l’espressione di una riscoperta del passato e di un’apertura al futuro. Resta solo da dire che nell’atmosfera rarefatta dei ricordi la silloge riprende temi e cadenze delle partiture musicali, (andante, vivace, notturni, rapsodie, ballate, ecc.) e indaga lo spazio noto, eppure indecifrabile, che passa tra musica e poesia e tra poesia e vita. I versi assumono i suoni dell’armonia e disarmonia dei sentimenti, essendo ognuno di noi la musica unica e irripetibile che si porta dentro. Emblematica della coesistenza tra sogno e realtà e dell’intreccio tra spazio e tempo è la poesia iniziale della raccolta (“Inverno leccese”). Essa si colloca in un’atmosfera irreale, un tempo senza tempo in cui tutto è possibile ma niente è davvero avvenuto; ci dice che uomini e cose sono legati da un filo misterioso che attraversa i tempi, grazie al quale è possibile che un’opera realizzata secoli prima diventi una sola cosa con l’emozione di due ragazzi di oggi nella magia di una piazza deserta, sicché è possibile pensare che essa fu costruita proprio per dare senso e bellezza al loro momento. Il tempo quindi scompare e tutto viene ricondotto all’immanenza di un presente che non passa, nel quale pietra inanimata e vicende umane entrano in simbiosi e l’uomo presta alla bellezza il suo cuore e le dà significato.
Inverno leccese
Su riccioli di marmo
disegna la luna i suoi intarsi.
Si apre deserta la piazza
a un’ombra solitaria di donna
in cerca d’amore.
Rubo dai suoi occhi il segreto
in cambio del mio.
Senza spaventarla
le offro la rosa
che ho preso al tramonto.
Cambia la prospettiva un fiore,
mi dice ridendo. Ed è vero.
Su Santa Croce si incurva
un cielo nero di abisso.
Figure grottesche di telamoni
e animali fantastici lo reggono.
Anche se più non ci incontreremo
in questa piazza di straripanti magie,
sappiamo che fu costruita per noi
solo per farci abbracciare,
e per questo fiocco di neve,
che cade lieve tra noi
come un bacio leggero
nella città dei miracoli bianchi.
Naufragio
Mi ripiego su di te
come fa la notte
sulle stanze degli amanti.
Bisogna avere voglia di nuvole
per amare senza corpo
ed essere una sola cosa col vento
per abbracciare senza braccia.
Come naufraghi
abbandonati dalla sorte
giochiamo a dadi il nostro destino
in questa notte senza luna
in questo mare senza terra.
Sono tue le braccia della notte
che circondano la vita
e la fanno naufragare.
Sono stanco del dolore di andare
ma prendo ancora su di me
la fatica dei remi
per quest’ultima traversata.
Da solo.
Andante con pioggia
Cade in baci
la piccola pioggia di marzo,
ha bocche di gelo
che inzuppano il cuore.
Alza le mani la sera
e le passa tra i capelli.
Tira fuori i remi la luna
per attraversare il cielo.
Accartoccio il mio amore
e ne faccio una bolla
per conservarne la luce.
I miei piedi
incontrano i tuoi
e se ne vanno via
senza voltarsi.