Charles-Demuth-Sail-In-Two-Movements-1919

Dittico

 
 
Trasposizione (o l’identità del poeta)
 
Il fatto di essere non sussiste
esiste l’essere come un fatto
del sentire. Io sarà il caro nucleo
per cui posso essere me stesso,
non il triciclo abbandonato in strada
accanto ai bidoni ustionati.
Mia figlia pedala.
Io, è le mutande del ragazzo
al semaforo che vende accendini.
Dopo un giorno di lavoro
brucio i fazzoletti abusivi
e raccolgo parole da uno schermo,
ustionato da tutti i contatti.

*
 
L’identità (o trasposizione del poeta)
 
Sentiva di spostarsi e accadimenti
intercedevano per lui che si spostava,
sospinto dalla piena presenza
di se stesso. Impercettibilmente
ad agire era un moto secondario,
che diventava consistente e si perdeva.
Camminava pienamente.
Si alternava in tutto il movimento
la sensazione vera di non essere
se non se stesso in contatto perenne,
come accade nelle passerelle
agli aeroporti dopo un giorno
in piedi a calpestare i propri passi.

*

Gli alberi e i ragazzi
 
Le schegge che da questo sopravvivere
appaiono scomparendo nello schermo,
nei display sempre accesi in cui gli occhi
dei ragazzi sono immersi
come radici in un campo diverso.
Un mondo germogliante e marginale
che resta apparizione nel desiderio infinito
di un’apparizione. Dove il contatto
è visione collaterale
il futuro insegue esempi,
vene che provano la strada al tronco,
al fiume in cui convergono correnti
educate da altre correnti.
La smisuratezza di un circuito esatto,
un organismo che suscita il miracolo composto
in una figura, in una parola.
 
In una scuola di un quartiere suburbano,
dove basso è lo scarto che separa
i riflessi e il vero che la realtà concede,
mi sorprendono mille vicende,
eventi che considero fondanti,
emergenze che si fissano nella memoria.
 
Dai gesti alle urla nella classe il gioco
della vita si concretizza…
gli insulti e le mani dipendenti da qualcosa di più ampio –
rami che si incrociano e uomini che abbandonano
i nodi a cui si avvolgono –
gli sputi di una ragazza ancora bambina
è la linfa di cui devo nutrire la mia sopravvivenza.
I germogli della strada rastrellati in una rete
sondabile, nenia inconsapevole
che affonda in questo luogo
di forte agnizione.
 
La chioma si apre e copre il cielo senza
oculi o feritoie. E il cielo è lì
seguendo la scia nel bagliore
degli occhi dei ragazzi, buchi
che chiamano desideri, come il trucco
di bambine che maschera altre negligenze
diventando “modello” di eleganza,
trucco che va oltre ogni bellezza
e si trasforma in sistema, avvertibile
ma non per questo accessibile…
per lo stesso motivo il verde ha tonalità
che l’occhio e la lingua non raggiungono
e l’albero resta indecifrabile.
 
La vita è fissata nella storia dei quartieri,
ma ciò che cresce mantiene un che
di preconfezionato, un habitus.
 
Le cose sono insieme all’uomo,
lo attraggono, lo sferzano, continuano
la loro funzione protesica,
eppure brilla altro sulla superficie,
è la vita nelle relazioni che i viventi
possono utilizzare attraverso gli strumenti…
i ragazzi non sanno che rispettandoli
rispetterebbero se stessi,
invece li distruggono
introiettandone la fine.
 
Le vene trasportano linfa
e diffondono nutrimento,
il sistema si equilibra per la presenza
di zone periferiche, ricicla le sostanze
ed espelle le nocive, l’organismo
tenta un ciclo non pensando alla sua fine.
Alcuni frutti maturano, le generazioni
si manifestano in curve e pieghe dei corpi
anche se invecchiare sembra sempre più impossibile,
simulo un’altra vita, mi adopero per allontanare
la consapevolezza di morire – comodamente
mi lascio trascinare da un cosmo
che si dissolve e non aderisce all’evidenza
di essere dissolto.
 
L’albero ravviva i suoi colori,
cosmesi, radice
di una nuova vitalità –
le ragazze mascherano l’entropia,
l’abbandono radicale che le genera,
candidamente, la sofferenza
di una famiglia disintegrata
dall’habitus d’origine, ecco il trucco,
si assottigliano al sistema e aderiscono
agli eventi fino a fuggire dentro schermi
che oscurano nuove affezioni, o nuove agnizioni…
restano mascherate il più possibile, fuori
il più possibile, mi insegnano un comportamento
che è mio e anche dell’albero, mi insegnano
la divulgazione.
 
Si spezza un ramo, le radici
alimentano i primi respiri,
la chioma s’infoltisce, è primavera inoltrata,
il sole si accende e acceca, noi non siamo in un luogo,
legati ed espulsi, chiediamo l’ombra
e un attimo di coinvolgimento. Dalle braccia
dei ragazzi una richiesta, ma riappare la necessità
e la risposta rimane un miraggio.
Loro fuggono nel loro universo, il mondo
spesso è ricco di aperture e membrane,
i nostri universi si divorano, tangenti,
assiderati dal contatto fino a fare apparire
una scia che fa pensare
all’emarginazione di questi quartieri,
semivivi o in simbiosi con la morte.
 
Discutiamo di denaro, di acquisto
e di coraggio infantile durante una rapina.
Uno dei ragazzi, malmenato
da un militare in borghese, mi dice,
armato di coltellino,
minaccia le vecchie signore; un altro,
entra in una bottega e ruba 20 euro,
la giornata si riempie, si compra da fumare
e si stordisce davanti a un video porno
sul nuovo smartphone, circondato da una tribù
temporanea, fino al prossimo distacco.
 
Le venature, i canali di trasporto,
i liquori, le analogie con altre forme di vita,
ogni parte rende possibile l’esistenza
e rinvigorisce la pianta.
Al piano superiore della scuola
altre storie,
un nuovo versante di esperienze
che si mobilitano per uscire
e cambiare nel flusso
che spera in un passaggio
alla foglia più alta:
l’eventualità di un lavoro o, remoto,
un percorso di studi. Osservo e abbraccio
questi desideri e lo sconforto che a volte arriva
e avvolge come i racconti dei piccoli eroi,
raccolti alle radici, intrecciati
al fermento, alla rinascita.

*

Lettera a una cucciola d’uomo
 
Cara piccola Sofia,
non c’è mondo che si apre
oltre la tua possibilità di vedere,
per questo osserva tanto,
comprendi i tuoi confini,
ciò che senti ricordalo perché ti aiuti
quando continuerai a scoprire sola
la tua voglia di scoprire.
Non ascoltare chi dirà che nulla
è questa fine, perché sarà la fine
dell’immaginazione, non si vedranno
più bambini e il tatto sarà un senso estraneo.
I tuoi giochi e la ricerca
di un consenso sono l’umanità
che è sola nell’individuo ma corale
nella necessità.
Tutti siamo piccoli, Sofia,
e abbiamo poco o niente da dire,
eppure questo minimo contatto
è un piacere concreto,
è il dovere che ci unisce e ci perpetua.
 

Tuo padre

*

La resa

 
Sul viso queste linee perfette
che la luce bagna appena.
 
Linee dall’alto che sfaldano la luce
ricadendo sulla bambina che dorme,
sui lineamenti dritti, dolci, verticali;
 
il viso della bambina è diverso
cambia come il giorno
come ogni giorno cambia
per somigliare a se stessa, diversa,
al diverso che cederà nel nulla
che già l’accompagna, rendendo
possibile la sua presenza attuale,
eterna.
 
Sul viso quelle linee perfette
ogni giorno perfette nella loro incoerenza
col perfetto che è sempre visione.
 
La visione è qualcosa che si arrende;
ancora, ogni tanto, combatto
con la mia resa,
la lingua diventa l’eco di un campo,
una lancia sospesa nel lancio,
non cade, salta.
 
La resa non ha obiettivi,
non sa definirsi, si bagna appena
rendendo.
 
 
 

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