in copertina Andrea Inglese nella ph di Mario Alifano

 

(‘Azolla filiculoides’, felce acquatica galleggiante)

 

Accolgo con piacere l’invito di Gianluca D’Andrea e Gabriel Del Sarto a partecipare a questa rubrica di autocommento intorno al tema dell’apertura al mondo. Innanzitutto, essendo poeta, anche se contemporaneo, e ironico rispetto alle pretese del genere, non posso non essere assillato da questo tema, che è in qualche modo intrinsecamente legato, checché se ne dica, allo stesso paradigma lirico moderno. Da Leopardi a Celan, il mondo, nella sua estraneità, interessa il lavoro poetico almeno quanto l’io e gli ideali di autoespressione. In secondo luogo, questo è un tema che mi ossessiona particolarmente, sia sul piano della scrittura poetica che su quello della scrittura teorico-critica. Di questa faccenda, insomma, ho scritto parecchio. Preferisco, quindi, proporre un montaggio di testi poetici e critici, con didascalie.

In Poesie e prose 1998-2016. Un’autoantologia (Dot.com Press, 2017) ho scelto di antologizzare alcuni testi tratti da Prove d’inconsistenza, il mio primo lavoro di poesia pubblicato in origine nel VI quaderno italiano (Marcos Y Marcos, 1996) a cura di Franco Buffoni. Ad apertura della selezione, e quindi dell’intero libro, ho inserito una poesia che appariva, nella raccolta del 1996, in posizione più defilata.

Consigli di un digiunatore

Ti ritrovo con l’osso del mondo

tra gli artigli e i denti,

stravecchia pietra che sbriciola

appena la sfiori.

Adesso la folla ti resta

dei tarli-parole che dentro vi era sciamata.

Cibo che non nutre,

gonfia e moltiplica la fame. Lascia fare:

semino veleno tra nome e cosa.

La colonna di parassiti

gambe all’aria. La polpa

salvata.

Al primo verso compare la parola “mondo”; al sesto la parola “tarli-parole”. Non è tanto l’annuncio di una poetica, quanto la formulazione di un paradosso: quando vogliamo parlare del mondo, quel che ci resta in mano sono le semplici parole.

Solo nel 2018, in un saggio apparso in un volume collettivo a cura di Paolo Giovannetti e me, Teoria & poesia (Biblon, 2018), mi sembra di essere riuscito a produrre una formulazione discorsiva, ossia critico-teorica di questo paradosso espresso vent’anni prima in forma poetica.

Da Iconoclastia artistica e concetto di littéralité, ora disponibile anche su Nazione Indiana (https://www.nazioneindiana.com/2018/07/09/iconoclastia-artistica-e-concetto-di-litteralite/).

“Prenderò in considerazione Méthodes, libro di Ponge uscito nel 1961 e contenente delle riflessioni di poetica redatte negli anni Cinquanta. In esso, è raccolto il testo di una conferenza presentata in Germania nel 1956 dal titolo La pratique de la littérature. Ponge insiste qui su una caratteristica tipica del poeta – sorta di precondizione psicologica o esistenziale al suo mestiere –, che è la particolare sensibilità all’esistenza del mondo e degli oggetti. Questa sensibilità riguarda, nella formulazione che ne do io, l’esteriorità radicale del mondo, ossia il versante più inospitale della realtà. Versante, per altro, che è sempre schermato dall’interiorità del sistema culturale e linguistico in cui siamo per lo più immersi. Ma Ponge sottolinea un altro aspetto cruciale della postura poetica. Bisogna infatti aggiungere a questa sensibilità generale, una sensibilità più ristretta. Ed ecco cosa scrive (traduzione mia): “Quindi, c’è questa sensibilità nei confronti del mondo esteriore. E poi c’è una sensibilità verso un altro mondo, anch’esso interamente concreto, stranamente concreto ma concreto, costituito dal linguaggio, dalle parole. Credo che siano necessarie entrambe le sensibilità per essere un artista, ovvero avere la sensibilità nei confronti del mondo e avere la sensibilità nei confronti del proprio mezzo espressivo” (pp. 277-278).

Sembrerebbe una frase tutto sommato banale, se non nascondesse abissi di carattere epistemologico. Nel momento in cui il poeta è colpito, provocato, investito dalla realtà materiale del mondo e degli oggetti, egli reagisce, dando però le spalle a quel mondo, per concentrarsi su un altro mondo, altrettanto materiale, ma più piccolo e sfuggente, che è quello del linguaggio e delle parole. Per altro, in questo scenario si è saltati dal mondo e dagli oggetti al linguaggio e alle parole, senza soffermarsi sul soggetto, sulla sua mente, la sua interiorità, i suoi sentimenti, ecc. Ci si è limitati a sottolineare che il soggetto che scrive poesia dovrebbe possedere una propensione all’attenzione e alla sorpresa nei confronti di ciò che materialmente lo circonda. Ma veniamo al paradosso enunciato da Ponge. Per andare verso il mondo che lo provoca con la sua circostante inospitalità, il poeta è costretto a ripiegarsi sul linguaggio e sulle parole, che hanno una loro specifica consistenza materiale. Ma così facendo, non potrà mai più uscire da quel ristretto mondo linguistico, fatto di certi suoni e certe tracce, per appropriarsi in qualche magico modo dell’oggetto esteriore. L’esito di questa riflessione sembrerebbe condurre allo scacco, all’ammissione di essere finiti in un vicolo cieco. Ma Ponge fa proprio di questa difficoltà lo specifico motore della sua scrittura. La sua strategia potrebbe essere così riassunta: giocare l’estraneità del mondo contro la familiarità del nostro linguaggio; curare il nostro linguaggio, sferzandolo con l’estraneità del mondo. Ma da cosa bisogna curarlo? Innanzitutto dalle idee che in esso si depositano, dai significati, dagli usi comuni delle parole, ma anche – visto che stiamo parlando di linguaggio poetico – dagli usi che la comunità poetica fa del linguaggio. Quindi il linguaggio va s-poeticizzato, o se vogliamo s-figurato, ossia bisogna liberarlo anche dalle figure letterarie e retoriche. Tutto ciò infatti fa ombra alla realtà dell’oggetto, fa ombra alla consistenza del mondo.”

Quando ho scritto la frase “giocare l’estraneità del mondo contro la familiarità del nostro linguaggio”, non pensavo ovviamente a Consigli di un digiunatore, ma vi ritrovo adesso un legame evidente: è la nostra consapevolezza del carattere “occultante” del linguaggio (per stereotipo, eufemismo, cosmesi, stilema personale, ecc.) che permette di “mantenere” il mondo nella sua esteriorità perturbante e inospitale (La colonna di parassiti / gambe all’aria. La polpa / salvata).

(Alto-basso II, 2019)

Da un saggio apparso sul numero 16 (2008) della rivista “Incroci”, poi pubblicato in due parti su Nazione Indiana (https://www.nazioneindiana.com/2008/05/05/per-una-critica-telescopica-genere-lirico-e-sfondi-antropologici-1/).

Dopo aver citato un passaggio di Sulla poesia moderna (il Mulino, 2005) di Guido Mazzoni, contestavo l’idea che la lirica, nel Novecento, potesse essere ridotta a un genere egocentrico e narcisistico, caratterizzato da un ripiegamento dell’io su se stesso e la propria “interiorità”.

“Qui a mio parere si rischia di misconoscere una delle caratteristiche fondamentali della lirica moderna in alcune della sue più alte manifestazioni: ossia proprio la percezione, e la restituzione, dell’alterità del mondo, della sua radicale estraneità ai criteri di comprensione e descrizione della mente umana. Ora, proprio l’esperienza che rende possibile una tale percezione è connessa con la condizione di singolarità del soggetto. Estraneità del mondo e singolarità radicale costituiscono le due facce di una stessa esperienza, o se vogliamo di una stessa postura mentale, che a sua volta nutre di sé la scrittura poetica e trova in essa una sua peculiare espressione.

Non è casuale, allora, che proprio Paul Celan, uno dei poeti che più radicalmente hanno interpretato nella seconda metà del Novecento il paradigma della lirica moderna, ci offra un’illustrazione del nesso estraneità del mondo/singolarità dell’io che ho richiamato. Si tratta di un brano tratto dal discorso proferito il 22 ottobre 1960 in occasione del conferimento del Premio Büchner. Celan formula ad un certo punto una definizione della poesia in termini che ci suonano familiari: «E allora il poema sarebbe (…) linguaggio, diventato figura, di un singolo individuo – e, nella sua più intima sostanza, presenza e imminenza»[1]. Poche frasi dopo, ci troviamo di fronte a queste osservazioni:

Il poema tende a un Altro, esso ne ha bisogno, esso ha bisogno di un interlocutore. Lo va cercando; e vi si dedica. Ogni oggetto, essere umano, per il poema che è proteso verso l’Altro, è una figura di questo Altro. L’attenzione che il poema cerca di porre a quanto gli si fa incontro, il suo acutissimo senso del dettaglio, del profilo, della struttura, del colore, ma anche dei «palpiti» e delle «allusioni», tutto questo io credo non è la conquista di un occhio in gara (o in concomitanza) con apparecchiature ogni giorno più perfette: è piuttosto un concentrarsi avendo ben presenti tutte le nostre date. «L’attenzione» – mi concedano di riportare qui, dal saggio su Kafka di Walter Benjamin, una frase di Malebranche –, «L’attenzione è la preghiera spontanea dell’anima». Il poema – tra quali condizionamenti!– diventa l’opera di qualcuno che tuttavia continua a usare i sensi, rivolto a tutto quanto appare integrandolo, apostrofandolo; diventa colloquio – spesso un colloquio disperato.[2]

Prima di inoltrarmi in un commento alle parole di Celan, è opportuno un chiarimento preliminare. La sua lingua in prosa è altrettanto densa e ardua di quella poetica, nonostante appaia di primo acchito più avvicinabile. Il filosofo francese Philippe Lacoue-Labarthe ha dedicato un saggio molto bello all’intero discorso di Celan e lo ha inserito nel volume La poésie comme expérience[3]. Anche l’analisi di Lacue-Labarthe s’incentra sulle nozioni di estraneo (unheimlich) e di straniero (fremd), legandole a quella di “voce singolare”. La sua prospettiva rimane però strettamente legata, per ragioni ovviamente anche filologiche, al pensiero tedesco e a quello heideggeriano in particolare. A me interessa, invece, seguire una pista antropologica, a costo di sacrificare una ricchezza di richiami semantici che è possibile identificare tra la parola del poeta e quella del filosofo, nell’ambito della lingua tedesca. Non solo, ma voglio mostrare come la riflessione di Celan non debba per forza giustificare solamente gli esiti espressivi di estrema oscurità, che sono tipici della sua poesia. Strade diverse possono muovere dalla medesima intersezione di estraneità del mondo e singolarità dell’io.

La condizione di singolarità, di solitudine senza appartenenza, costituisce una soglia estrema dell’identità, che coincide idealmente con l’azzeramento o la sospensione di tutti gli aspetti del nostro essere legati a degli status di carattere sociale. La massima presenza a sé dell’individuo, però, piuttosto che favorire un ripiegamento sui propri ricordi e le proprie fantasticherie, tende a intensificare la percezione di quanto esiste al di fuori dell’io, nella realtà circostante. E la facoltà chiave di questa esperienza è appunto l’attenzione. Ma l’attenzione non è qui modellata su attitudini e posture pratiche, legate al vivere sociale e alle funzioni che in esso variamente assumiamo. Si tratta di un’attenzione senza orientamento e oggetto predeterminato. Non è neppure un mondo, nel senso di totalità organizzata, quello che viene in primo piano, ma un manifestarsi anarchico di dettagli, di profili e rilievi. E a questo risveglio percettivo si accompagna l’esigenza di dire ciò che appare. Ma non si tratta di descrizioni o cronache, ma di colloqui, invocazioni, apostrofi.

Ciò che si tratta di cogliere è la particolare apertura del soggetto nei confronti del mondo, una volta che egli sperimenta la sua condizione di singolarità. La soglia che in tale esperienza emerge non è quella tra l’io e se stesso, in una sorta di ripiegamento riflessivo ed egocentrico, ma quella tra l’individuo come membro di un ordine sociale e culturale e l’individuo come singolo, ossia come escluso da quell’ordine e intruso in un mondo pre-sociale e pre-culturale, anteriore alla rete dei significati condivisi dalla collettività. (Con il termine “singolarità” ci riferiamo ad un polo estremo all’interno di un ideale spettro di identificazione, di cui una società dispone nei confronti di un individuo che ne è membro. Al polo opposto vi è la perfetta “equivalenza”. In altri termini, ogni individuo può essere riconosciuto e identificato a partire da due punti di vista estremi ed antitetici. Secondo l’uno, ogni individuo non è che un esemplare umano equivalente a qualsiasi altro, e come tale è sempre sostituibile, in quanto ciò che conta è la funzione che svolge. Secondo l’altro, ogni individuo è unico nel suo genere, e quindi incomparabile rispetto ad ogni altro, oltre che insostituibile.)”

(Alto-basso I, 2019)

Chiudo con un testo tratto dalla sezione Le circostanze della frase, in Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato (italic-pequod, 2013).

Uso le prose, spesso, per creare “precipizio”, affanno enunciativo, per togliere quei bianchi e quel respiro, quel silenzio, che tanto viene celebrato nella versificazione. Le prose sono fragorose. L’apertura al mondo non è una crepa, un taglio di Fontana, ma un’invasione psichedelica, strabordante e disorganizzata, di dettagli. Ma questo impatto energico, da schiaffone, che il mondo nella sua inospitalità magnifica e terrificante opera, è sempre minacciato di capovolgimento, di ritorno al suo contrario: la carta da parati, la finzione che tappezza, o peggio, lo spettro, l’ombra, lo svaporare dei nessi e delle sostanze, il puro blaterare nel vuoto.

ORA, QUASI ASSOLUTAMENTE, e per certo, sono nella realtà, a fondo, fittamente intriso, anzi fattivo, mosso a fare, partecipe, cooperante nel realizzare quel che di reale è nella realtà, il meglio, più affilato, l’ininterrotto spinato filo, i fatti negli altri fatti, assommati, legati, sonanti, e con spazio, sopra e sotto, sovrabbondante spazio per ulteriori fatti, e faccende, e cambiamenti di clima, e denti che crescono, e lunghe, coordinate operazioni su carta, su moduli, su schede, su tastiere, manovrando la realtà per regole e certificati, annullando oltraggi, errori, pulendo da terra gli sputi, sciacquando via le chiazze di sangue dai vestiti, secchi e spugne, riordinando, e io con ansia, nel reale, puntualmente dentro, magari dicendo: no, no, questo non è accettabile, ho un’idea migliore, e non essere neppure ammazzato, neppure per sbaglio, ma nessuno ha garantito, sonno o veglia, sonno nella veglia, tutto andato avanti, avventato, realmente, o forse di riflesso, di pura ombra, insolubile pressione, fino alla fine, e per quale sguardo?

 

[1]           Da Il meridiano, in Paul Celan, La verità della poesia, trad. it., Einaudi, Torino, 1993, p. 15.

[2]           Ivi., p. 16.

[3]           Philippe Lacue-Labarthe, La poésie comme expérience, Christian Bourgois Editeur, Paris, 1986 e 1997.

 

nota bio-bibliografica

Andrea Inglese, originario di Milano, vive nei dintorni di Parigi. È scrittore e traduttore. In Francia ha insegnato letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III e attualmente insegna in una scuola di architettura e design a Parigi. Ha pubblicato libri di poesia, saggi e prose. Tra le ultime pubblicazioni, il romanzo Parigi è un desiderio (Ponte Alle Grazie, 2016, Premio Bridge 2017), il libro di prose Ollivud (Prufrock spa, 2018) e la raccolta di saggi militanti La civiltà idiota (Valigie Rosse, 2018). Con Paolo Giovannetti ha curato il volume collettivo di saggi Teoria & poesia (Biblion, 2018). Nel 2020, per le edizioni art&fiction di Losanna, è uscito Mes Adieux à Andromède nella traduzione di E. Del Giudice. È stato redattore della rivista “Alfabeta2” e del sito GAMMM; è uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.

ph tratta dal film Sacrificio (Offret) – 1986 – scritto e diretto da Andrej Tarkovskij, vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria al 39º Festival di Cannes. 

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