Qualche anno fa mi è capitato di affermare che un autore non può pensarsi tale fino a quando non ha raggiunto una consapevolezza della sua poetica. Chiedevo uno sforzo di logica o una forma di rettitudine che legasse in modo definitivo il dire e il senso etico: un rapporto autentico tra ciò che cercavo e il modo in cui l’esprimevo. Eppure in ciò che scrivevo la solidità logica annegava in immagini di leggerezza, di perdita, di scissione fra ciò che si vive e ciò che si è. “Siamo cose leggere che sillabano e vivono”: l’incipit di questa poesia è così assertivo. Ma la leggerezza non ha nulla a che vedere con il fatalismo. Mi sembrava che la condizione umana assomigliasse un po’ alla poesia che, sillaba dopo sillaba, nel suo ritmo, era la cosa più fragile e al tempo stesso più forte di cui mi fosse capitato di fare esperienza. Pensavo che la poesia innescasse una resistenza tra i movimenti del sillabare – il linguaggio e i desideri, l’espresso e l’inespresso – e il vivere – le condizioni oggettive che in fondo ci riportano sempre a una biologia elementare. Ma la leggerezza era il mio sforzo di conoscenza: un modo per impadronirmi della realtà che sembrava continuasse a sfuggirmi, come se non riuscissi a comprendere davvero i suoi meccanismi o gli aspetti pragmatici. Caricavo la leggerezza, che è la condizione più emotiva e empatica a cui si potrebbe pensare, di una robustezza teoretica. E sbagliavo: perché, se un dialogo è possibile tra passione e logica, è inumana la loro fusione, mentre la poesia è il linguaggio più intensamente e irrimediabilmente umano che conosca. Da qui ho iniziato a scrivere.

Probabilmente – lo dico con sarcasmo – è stata una leggerezza affidarmi alla poesia. In poesia contano soprattutto l’implicito e lo stile, ma ha perso una misura di riconoscimento. Con chi è davvero possibile oggi condividere e dunque riconoscere il valore dell’implicito e dello stile? Ma soprattutto perché siamo, ormai dagli anni Settanta, in cerca di una risposta a questa domanda, perché continuiamo a ragionare su legami socialmente codificati tra poesia e società? Potrei rispondere con un paradosso: la poesia, che sembra la parte di letteratura più distante dai meccanismi della vita pratica, in realtà ha una struttura e sue regole interne molto più oggettive e stabili di qualsiasi soluzione o strategia scientifica. In una vera poesia tutto è necessario e ogni parte non potrebbe esistere senza l’altra.

Incredibilmente, allora, la leggerezza poteva farmi fare esperienza di come tra ciò che pensiamo e il modo in cui ci comportiamo non sempre ci sia autenticità – a volte chiediamo leggerezza per non sentire il trauma di non poter agire come vorremmo, di non essere noi stessi –. Ma la leggerezza poteva farmi sentire anche che nel peso socialmente e economicamente irrisorio della poesia c’era un sistema di accordi e rispondenze molto più sicuro di qualsiasi circostanza oggettiva a cui chiunque attribuirebbe una vita concreta, solida, a dispetto di una finzione letteraria. Può sembrare assurdo, ma ai miei occhi in poesia l’autenticità non poteva mancare: la sua forma non permette bugie, i legami stilistici e semantici devono essere esatti altrimenti la poesia non esisterebbe. In poesia i rapporti sono intrinsecamente autentici. La leggerezza della poesia era per me l’unico modo per provare la gioia dell’autenticità.

Siamo cose leggere… è un testo di Vite unite, piccola raccolta contenuta nel XII Quaderno italiano di poesia contemporanea, pubblicato da Marcos y Marcos nel 2015. La scrittura – pensavo allora – poteva tenere unite le vite – umane e non-umane, organiche e inorganiche: renderle coerenti tra il dire e il fare, il volere e l’essere, il falso e il vero. Al centro della mia osservazione c’erano le relazioni: tra le persone, tra le persone e le cose, tra le cose e le cose, tra gli eventi. La scrittura rifletteva una condizione di ricerca costante attraverso la realtà più materiale, se si vuole, immediata, che poi in poesia traslavo su un piano in cui i perché volevano risposte che mi trascendessero e dessero un senso alle domande. La ricerca sulle relazioni ha finito per concentrarsi sui fenomeni in cui c’era un rapporto tra reale e virtuale: il mondo delle comunicazioni, della tecnologia, dei social media, delle interfacce, dove lo scambio tra autentico e inautentico è rinnovato quotidianamente e passa tutto al filo del rasoio. La mia scrittura è diventata un mondo pieno di schermi e di colori freddi, con molti toni dell’azzurro, di corpi che sfumano in ologrammi e proiezioni che tornano a essere carne, di luce digitale che abbaglia gli occhi e, quando ci guardiamo in una video-chiamata, assottiglia la consistenza della pelle in un alone blu di pixel. Ma la poesia, con i suoi precisi rapporti formali, ricostruiva queste entità sgranate, come poter bucare lo schermo e toccare dall’altra parte una gola dentro cui le corde vocali vibrano per articolare una voce reale. I miei schermi sono completamente svuotati da ogni simbologia letteraria: sono mezzi reali e umani che proiettano e riflettono immagini – telefoni, computer, vetri delle finestre e delle architetture urbane, finestrini dei treni –, e sono sempre pieni di movimento – delle parole, come quelle che scorrono sui social network, delle persone e dei paesaggi, come quando in certi edifici si vedono flussi di persone riflessi tra le pareti di vetro o quando il paesaggio viene risucchiato dai finestrini dei treni ad alta velocità. La consistenza di questi schermi vitrei ha qualcosa di simile all’acqua: le onde e le correnti possono riprodurre le linee, i punti di fuga e le architetture che i ritmi e lo stile di un testo compone al suo interno. Una poesia, come uno schermo virtuale, può condensare la concezione prospettica di cui parlavano Panofsky e Berger attivandola in senso multi-direzionale. Nel testo Prospettiva parlo di un viaggio in treno da Milano a Firenze: immagino che l’alta velocità attraversi la prospettiva aerea di Piero della Francesca ma, allo stesso tempo, essa si volge verso l’interno della testa di chi guarda. La prospettiva umanistica può essere una forma di violenza sulla realtà perché la orienta secondo il punto di vista del soggetto. Nella dimensione della virtualità, che alcuni chiamano post-umanistica, è invece ciò che l’uomo ha creato a fargli violenza: il punto di fuga esterno si ribalta e affonda nell’uomo, trafiggendolo. Ma esiste una potenzialità creativa che fa interagire il nostro sguardo attraverso lo schermo e lo sguardo, in fondo enigmatico o spaventoso, che dallo schermo ci guarda. I piani si combinano. Ho immaginato la traslazione di una stanza nell’edificio che si chiama Aquatic Centre e si trova a Londra, un centro sportivo per il nuoto progettato da Zara Hadid. Il soffitto di questo edificio è bianco e segue linee curve che paragono a quelle del pensiero proiettate sul soffitto della camera. Il suono dell’acqua nelle piscine si trasforma in un ronzio, come di api che secondo il mito virgiliano entravano nella carne morta e la rigeneravano. L’architettura, solida eppure sinuosa, fluida, assomiglia alla forma del linguaggio del testo, dove chi guarda può essere rigenerato da quello che viene guardato. In un’immagine un po’ estatica si dice: “il sesso non sarà più violenza ma fenomeno di sguardo”. In una dimensione creativa ciò che appare come un limite o una forzatura viene reintegrato da un altro limite; ed è la facoltà del pensiero, se davvero libera, incondizionata, a offrircene la possibilità. Il logos egocentrico diventa relazionale: “le api ora lasciano la mia bocca perché le penso”. La poesia permette di attraversare i limiti e connetterli. In L’altro limite, uscito per pordenonelegge-lietocolle nel 2017, lo schermo era la figura dell’individuo dentro il suo limite, ma anche del problema delle relazioni tra il piano soggettivo e quello intersoggettivo. Lo schermo poteva diventare una metafora del significato della lirica che, dopo anni di dibattiti sulla sua utilità o inutilità, sul fatto che dovesse essere de-soggettivizzata o meno, spogliata di ogni aspetto confessionale, mi sembrava rispondesse essenzialmente a una questione: chiedersi come sia oggi il sentimento soggettivo e come possa essere rappresentato, il che corrisponde a una ricerca sul senso dell’autenticità. Viviamo in un’epoca dell’apparire? Forse l’epoca in cui è nata la lirica è stata un’epoca dell’essere? Non si può fare marcia indietro. Credo, tuttavia, che la separazione netta tra essere e apparire, che a parlarne adesso puzza un po’ di Novecento, possa essere superata dall’autenticità.

Prima ho detto che in poesia riuscivo a provare la gioia dell’autenticità. Una poesia, qualcosa di così leggero rispetto a tante cose concrete, ha una forma in cui nulla può mentire – i legami tra quello che appare e quello che è sono assoluti, un po’ come accade nelle leggi matematiche e nella musica. Ma in un’epoca dell’apparire l’autenticità non ci assale forse quotidianamente? Ci è richiesta una corrispondenza incontrovertibile tra ciò che siamo e come ci mostriamo. Persino Istagram funziona secondo questa esigenza. In letteratura si chiede l’identità tra la storia e la biografia dell’autore, a tal punto che l’aspetto della finzione artistica passa spesso in secondo piano rispetto al senso politico e civile che questa identità rappresenta. L’autenticità, insomma, non ha assunto un valore di riconoscimento collettivo, una possibilità di aver fiducia? Spesso distorcendo la qualità letteraria. Allora, se nel campo della poesia italiana si fanno ancora discorsi dal sapore ideologico sul perché sia scomparso un pubblico che riconosca alla scrittura un valore socialmente e politicamente condiviso, nel romanzo l’autobiografia, l’auto-fiction, la docu-fiction,… hanno risolto la legittimazione della letterarietà semplicemente rimuovendone il problema. E l’invenzione: è una leggerezza demodé? Che cos’è autentico in letteratura? Non può esserlo anche ciò che, a pieno diritto, è puramente inventato? In una delle epistole immaginarie a Gennariello, Pasolini parlava della “presenza espressiva” del cinema rispetto alla scrittura. Siamo nel 1975. Il cinema non ha ancora ucciso la scrittura, ma quella presenza espressiva dichiarava un bisogno, con preveggenza: infatti, è quella presenza che risponde alle domande di un certo inconscio collettivo davanti ai raffinati romanzi di Annie Ernaux e alla letteratura postcoloniale ora premiata con il Nobel a Abdulrazak Gurnah. L’invenzione è depositata nel ‘fanta’: potremmo leggere così anche i libri di Margaret Atwood. L’immaginario è intriso di autenticità a tal punto che non solo non ce ne accorgiamo, lo diamo per scontato, ma rischiamo di perdere la bussola di fronte all’enorme valore che l’autenticità rappresenta. Autentico viene da autos – me stesso – e hentes – participio del verbo “fare”, “agire”. Colui che è autentico agisce in accordo con il proprio sé, quindi apparentemente in modo egocentrico senza vincoli rispetto alle norme e agli altri. Tuttavia, l’agire del sé dipende da una dimensione intersoggettiva, senza la quale ogni azione sarebbe vana, andrebbe a vuoto. Il sé per riconoscersi e fare realmente qualcosa ha bisogno del contesto sociale. In altre parole, l’autenticità è la condizione in cui il sentimento soggettivo viene portato costantemente a stabilire relazioni tra limiti, tra io e altri, tra vero e falso, tra essere e apparire. In letteratura l’autobiografia tranchant e il netto documentario possono liquidare la complessità del problema; d’altra parte, la finzione integrale non sembra una strada risolutiva. In poesia questa possibilità può esistere: lo stile della poesia offre un’architettura formale in cui la riflessione, l’autobiografia e persino la narrazione possono coesistere e il sentimento soggettivo – chiamatelo lirica, se preferite – per essere integralmente autentico attraversa e si fa attraversare da ogni cosa che riguardi una profondità intersoggettiva. La concezione prospettica va verso il punto di fuga esterno e si capovolge verso l’interno: questo passaggio è multiplo e fluido; essere e apparire dischiudono di volta in volta uno il proprio confine nell’altro.

Ho scelto la parola Trasparenza come titolo per il libro uscito nel 2019. Una parola al singolare, pulita, per certi aspetti non molto letteraria. La collana “Lyra giovani” di Interlinea realizzava libri dal formato piccolo e compatto, e questa parola stava in mezzo alla copertina come sopra a una pietra. Ma come può essere densamente percorsa, questa parola, da tutti i rapporti tra reale e virtuale, dai riflessi tra gli schermi, i vetri e l’acqua, da tutti i limiti che ci impone ogni giorno il nostro voler essere noi stessi e sinceri! Pensate al vetro di una finestra. Guardandolo si vede subito che cosa c’è dall’altra parte. Avvicinandosi, però, si possono notare imperfezioni, tracce di polvere e sporco. La visione diretta, immediata è alterata, anzi compenetrata da una visione indiretta, mediata. Pensate adesso allo schermo di un computer o di un telefono: le immagini e le parole appaiono all’istante e in frazioni di secondo possono essere inviate a un nostro interlocutore. Ma questa vicinanza è virtuale e si perde nella distanza vertiginosa dell’etere. Che cos’è la trasparenza? A dispetto di come viene pubblicizzata – è obbligatorio indicarla sui social network e sui siti internet; in politica, in sociologia e in filosofia se ne è discusso come di una caratteristica vincolante e vincente – la trasparenza non è altro che una condizione della relazione. È uno stare nella trasparenza, interrogarsi su come si formano le relazioni e i legami, su come dalla superficie dello schermo si possa penetrare nella profondità. In questo senso, il rapporto tra reale e virtuale si riempie di intensità umana e la trasparenza è il modo per comunicarla. Il poemetto Trasparenza che chiude il libro è ambientato in campagna. All’alba la luce sale dal mare che è a est – è l’Adriatico – e attraversa le foglie e i ferri lasciati accanto a una casa in costruzione. Questa luce mescola gli oggetti dell’uomo e la natura, li fa trasparire in controluce come dentro bolle in cui i pensieri si materializzano: “sfere dove le proiezioni di molti uomini iniziano a scambiarsi”. Il mare sembra diventare un orizzonte verticale: la sua prospettiva di profondità è invertita, come in un quadro di Rothko, e nella verticalità può andare a fondo in sé. Questo posto è reale, ho visto la luce traslucida di quell’alba, però nel poemetto il paesaggio è composto da una rete materiale e allo stesso tempo smaterializzata, perché totalmente intersoggettiva: “intorno è il posto interiore della paura e della verità”. La poesia diventa saggio. La mia quête ha osservato e unito lo spazio digitale a quello naturale, forse ha provato a risolvere le tensioni del digitale in quelle del naturale. Attraverso un percorso di conoscenza la poesia ha permesso a un nucleo di aprirsi e alle cose di abitarsi. C’è un’ipotesi di reciprocità che potrebbe essere chiamata anche etica della conoscenza: corrisponde a un mettersi alla prova, lasciarsi plasmare resistendo, mentre si cercano i legami tra le parole e il mondo. Per questo anche la forma libro diventa elastica e si dispiega come un processo per sintesi in tre sezioni: una che indica una rappresentazione pura della trasparenza, un suo ideale astratto; un’altra dove la rappresentazione è impura, invischiata in molti casi concreti; e un’ultima in cui c’è una sintesi tra puro e impuro, l’uno fluisce nell’altro e si sta nella trasparenza, in un’osmosi tra il sé e le relazioni.

Riflettendo su quest’idea di etica, penso che l’autenticità si possa riconosce non solo quando la nostra intimità riesce a farsi abitare completamente dalla natura e dalla storia, ma anche quando si comprende quanto sia importante la forma in poesia. La forma è qualcosa di ontologico e organico. Se la forma è dipendente dalla norma diventa manierismo. La forma è un disegno: vuol dire scopo, obiettivo, ma anche disposizione, il modo in cui qualcosa è composto. L’unione dello scopo e della disposizione portano al perfezionamento di un’esperienza. Il testo configurato come schermo, architettura e limite corrisponde a questo perfezionamento, che non ha nulla di estetizzante ma vuole mettere in risalto l’intensità delle relazioni e la loro complessità. Che cosa rende possibile la forma? Soprattutto il ritmo. La natura, in primo luogo, è piena di ritmi: quelli delle maree, delle fasi lunari, delle particelle dentro gli atomi. Dai ritmi naturali sono dedotte la leggi naturali. Ma i ritmi naturali sono stati anche assimilati antropologicamente e sono stati imposti dei ritmi a movimenti in cui essi non apparivano. La scienza ha creato ritmi meccanici, mentre nelle arti i ritmi hanno dato forma a un’energia emotiva. In poesia i ritmi hanno generato il discorso poetico, che non coincide con i metri, l’articolazione delle sillabe… Il movimento ritmico, infatti, determina il discorso poetico ed è il verso che può essere compreso in base al ritmo e non viceversa. Per questo preferisco parlare di versi ritmici anziché semplicemente di versi e di movimenti strofici anziché di semplici strofe. L’impulso ritmico collega il pensiero e la lingua, il senso e il suono, e porta al discorso poetico e alla sua organizzazione cinetica (energia), che è diversa rispetto a quella che c’è nel parlato e nella prosa. Questa cinesi ha sue intensità e sue intermittenze in cui c’è una identità tra la serie ritmica (suono) e la serie semantica (senso). Le combinazioni ritmico-sintattiche fra le parole e le figure retoriche creano una resistenza che dà una percezione particolare dello spazio-tempo. L’intensità e le intermittenze della poesia danno una consistenza particolare alla memoria e alla prefigurazione. Nelle dimensioni dello spazio – altezza, lunghezza, profondità – ci si può muovere avanti e indietro, ma nella quarta dimensione, il tempo, si è limitati a un procedere in avanti senza chance di ritorno. Nelle serie ritmiche di una poesia, tutte e quattro le dimensioni sono percorribili senza barriere direzionali: i legami fonici si tengono insieme, si ricordano e per associazione prefigurano altri legami. Grazie al ritmo la forma –dove c’è comunque rigore, tutto è compatto – diventa anche molto duttile e plastica, capace di far esistere il soggetto intersoggettivamente. La forma lega un’autobiografia alla natura e alla storia. La natura non corrisponde a uno stato idilliaco, romantico, a una nostalgia di paradiso perduto, ma a un essenziale modo di essere. “Ciò che è, è – se non è sono stato, sono, sarò?” ci si chiede a un certo punto in Millennio di primavera che chiude la plaquette Dal deserto rosso uscita con Stampa 2009 insieme ai disegni di Linda Carrara. Il deserto corrisponde alla mia idea di natura: non qualcosa di vuoto, ma di radicale, come può indicare l’etimologia di rosso, rubrum, che lego a vis, roboris, una radice forte e incontrovertibile di quello che siamo. E spesso si teme di riconoscere quello che siamo, da esso a volte si fugge. L’autenticità è anche fare i conti con questa radice esistenziale che incontra (o si scontra) sempre il senso del nostro posto nel mondo: “se non siamo mai autentici verità fai paura?”. Le difficoltà che si trovano nell’essere ciò che si è, nel non nascondersi, nell’avere coraggio potrebbero essere paragonate a un percorso etico di calvinismo laico. Per questo nella plaquette la dimensione del digitale sembra un tatuaggio che scolora di fronte alla natura e alla storia vissute come forze fisiche e fisiologiche. Il presente – ad esempio, il We’ll meet again pronunciato in conferenza stampa da Elisabetta II nella primavera 2020 – e il passato – i riferimenti al Santo Sepolcro che non era stato mai chiuso dal Trecento, a Cesare e Napoleone – sono parte di un’integralità di lunga durata che non può essere assuefatta dalle rifrangenze fra gli schermi: contiene essa stessa il virtuale e nella sua prospettiva lo rende una frazione millesimale. Dal deserto rosso è condizionato storicamente dagli eventi pandemici. È composto da quattordici poesie epistolari di quindici versi ritmici ciascuna – una forma un po’ più dinamica del sonetto – indirizzate a un destinatario che può essere tanto reale quanto immaginario, e da un poemetto finale. Ogni poesia-lettera emana un moto di propagazione, come anelli sull’acqua, ma offre sempre una figura formale definita. Come nell’arte digitale – il libretto sta diventando un progetto di arte digitale, curato da Felice Vino per Ophelia Borghesan – il testo in sé assomiglia a uno schermo: i ritmi sono in movimento come i pixel possono riprodurre i moti più empatici. Ma soprattutto la natura cerca la storia (e non lo storicismo). In Deserto rosso Antonioni racconta l’alienazione rispetto alla società consumistica del tardo capitalismo. Nella solitudine di questo secondo deserto le persone si possono ridefinire capendo la portata dei sentimenti, che sono materici come la sabbia, poveri perché essenziali, se autentici. Le persone possono mettere a contatto le proprie nature individuali – come il gesto di scrivere una lettera, chiuderla in una bottiglia e lanciarla in mare, oppure premere il tasto invio verso milioni di destinatari nell’etere – con la natura storica che abbiamo intorno, l’habitat che abitiamo e che ci abita.

Svegliarsi la mattina presto, vedere la luna piena in mezzo al cielo che crea l’illusione di un sole anomalo, oppure ascoltando il verso di un uccello immaginare che quell’animale è un discendente dei dinosauri e  milioni di anni fa lo stesso verso si propagava a una frequenza superiore di moltissimi decibel (È mezzogiorno e vedo una notte di mezza estate…), indica una fluidità spaziale e temporale che la forma ritmica della poesia permette: non soltanto nei contenuti, ma soprattutto nella serie ritmica. La poesia è un saggio fatto di pensiero emotivo che si sposta empaticamente attraverso lo spazio-tempo, una delle esperienze intersoggettive di maggior rilevanza per comprendere che cosa sia davvero l’autenticità. Quando leggevo Sereni, con i suoi spazi multipli e i suoi io moltiplicati, volevo imparare a riempire il mio immaginario di densità umana. “Trasparente se la verifichi ma tutt’altro che una serena esplorazione” scriveva Amelia Rosselli riferendosi al mondo in cui la psiche esiste storicamente. Nelle mie forme architettoniche fluide non c’è recondito né oscurità, e se le prospettive si rovesciano è per vedere che ogni limite a sé non basta mai. Nelle architetture c’è un senso di armonia come prova e strategia. Ma in fondo anche un modo di dire ad ognuno che si avvicina e legge: in questa poesia potrai fare i conti con te stesso e attraverso una resa dei conti pensarti sociale.       

        

ph tratta dal film Sacrificio (Offret) – 1986 – scritto e diretto da Andrej Tarkovskij, vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria al 39º Festival di Cannes.

          

Nota biografica.

Maria Borio (nella foto di Dino Ignani) è poeta e saggista. Dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea, cura la sezione poesia di “Nuovi Argomenti”. Il suo ultimo libro di poesia è Trasparenza (collana “Lyra giovani” a cura di Franco Buffoni, Interlinea 2019) in uscita in traduzione negli USA, il precedente L’altro limite (pordenonelegge-lietocolle 2017) è stato tradotto in Argentina. Il suo ultimo libro di saggistica è Poetiche e individui (Marsilio 2018). Fra i premi di cui è stata vincitrice, il Mauro Maconi e il Città di Fiumicino. È redattrice del sito culturale “le parole e le cose”. Fondatrice del festival europeo “poesiæuropa”, collabora con i programmi di Radio 3 Rai e con la cattedra di letteratura italiana contemporanea dell’Università di Perugia.

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