Comincio da una delle soluzioni più recenti, un traguardo provvisorio, che sarà il seme probabile di una serie futura. Si tratta di una commissione, una poesia scritta per il quotidiano «il Messaggero» e, per di più, per la ricorrenza di San Valentino. La sfida è, come sempre, scrivere cose nuove sul mille volte già scritto e mille volte consunto.
Sebbene la poesia, come affermava, con la nota passione, Pasolini, sia «merce inconsumabile».

Il testo è stato composto in un’ora, esito già maturo di un’ossessione lunga, risultato di una riflessione che dura da anni, come testimonia il video dello scorso aprile di «Repubblica TV», durante il quale la linguista Valeria Della Valle risponde in maniera ironica, accurata e intelligente a una mia provocatoria domanda circa la possibilità che la nostra lingua così «letteraria» ed esausta (ometto di replicare qui l’aggettivo «asfittica», per non dispiacere la simpaticissima interlocutrice) venga “rinfrescata” dall’ingresso di nuove lingue, portate da quelli che al momento definiamo «migranti», come una terra spaccata dall’arido viene alleviata dalla prima pioggia.

L’arido che spacca l’Occidente al quale apparteniamo è la solitudine. Come nazioni e lingue. Una solitudine che alcuni addirittura pretendono. E la chiamano “Patria”. Credo, al contrario, che la nostra lingua e la nostra cultura abbiano bisogno di aprire le finestre e far entrare l’aria, di mescolarsi al nuovo – che non è solo la tecnologia, già abusata in poesia e che, del resto, echeggia solo la nostra voce e la nostra mercanzia – ma il nuovo di un presente che, con la pazienza del giorno che succede al giorno, spero diventi il futuro.

Della Valle ha avuto l’onestà e la cortesia di mettersi in gioco in prima persona, scoprendo che le parole straniere recentemente entrate nel suo uso personale sono, a parte la gustosissima kebab, «tutte parole che suscitano paura»: burqa, niqab e jihad.
Nessuna parola araba portatrice di gioia è entrata nell’immaginario di una donna che studia frontiere e resistenze della lingua.
Eppure, ogni lingua – inclusa la nostra – nasce da una vitale mescolanza. Naturalmente, modifiche e contaminazioni non possono essere imposte e richiedono tempi e modi spontanei, che durano una durata secolare. Solo il fascismo, ricorda Della Valle, osò una campagna di «politica linguistica», mettendo all’indice parole che era proibito usare e ottenendo il solo risultato di una pubblica afasia o di una pubblica ipocrisia, che non ha fortunatamente lasciato alcuna traccia nella nostra lingua. I diktat durano solo il tempo dello spavento.

Della Valle prosegue l’intervento auspicando un uso rispettoso della lingua da parte delle istituzioni, nei confronti di chi in questo momento necessita accoglienza. È sotto i nostri occhi la deriva inversa del nostro paese. Come opporsi? La poesia certo non basta, ma testimonia, perché dice la verità, ed esorta, perché richiama alla civiltà.

I poeti che desiderano assumere un pur minimo ruolo sociale, offrendo il proprio contributo alla costruzione di una società vivibile e serena, devono per forza levigare la propria poesia fino al nitore, per dire a un numero maggiore di persone. Senza però cedere in qualità poetica. È un crinale molto scivoloso, sul quale in questo momento di crisi pubblica sento il dovere morale di avventurarmi.

Desidero inoltre che alcune poesie siano chiare anche ai bambini, perché ritengo che il lavoro di “riarmonizzazione” vada condotto dall’origine. Per ciò, amo andare nella scuola pubblica, preferibilmente alle elementari, dove la scrittura è ancora sorgiva e il pensiero non ancora ingobbito sotto il peso di spesso inutili precetti “poetici”. In quei luoghi franchi, la parola è «un semplice esercizio di libertà», come titola una poesia che ho dedicato al lavoro nelle scuole.

Se tutti noi, come credo e sperimento, abbiamo tanto bisogno di poesia, è perché religioni e ideologie non rispondono più alla nostra parte misteriosa, che cerca nutrimento altrove che nel mercato. Dunque, sono intensamente grata ai poeti, che inseguono per tutta la vita qualcosa che non si vede, non si sa, non dà soldi né fama, ma è forse il meglio che abbiamo.

Le frasi poste tra virgolette che precedono la poesia, sono state pronunciate, in ordine sparso, da Antonia Arslan, Helena Janeczeck, Jhumpa Lahiri, Giuseppe Samonà e Ornela Vorpsi durante una tavola rotonda dal titolo significativo Nati altrove, che ho moderato all’Università «La Sapienza» di Roma lo scorso febbraio 2019 e che insisteva benignamente sulla mia ossessione multiculturale, perché presentava autori che introducono nell’italiano sonorità e atmosfere interiori e formative delle proprie geografie d’origine e delle proprie lingue madri, che diventano nostalgia biografica, qui anche storicamente circostanziata, di una lingua originaria. Importa dunque riportare alcuni stralci delle cinque schede che ho preparato per questi autori che lavorano a cavallo fra le lingue, per chiarire coi fatti l’idea di contaminazione linguistica. A seguire, la poesia, il cui intento a questo punto è anche troppo eviscerato.

Antonia Arslan: la lingua non basta, a dire esilio e strage. Sebbene Antonia Arslan sia nata a Padova, il suo italiano è lievemente diverso da un italiano completamente “nativo”, ha una temperatura più elevata.
Antonia Arslan, come una delle lamentatrici, canta «imparziale per tutti i membri dell’oscura razza umana»: le sue parole effondono, continuo, il senso della comunità umana. Ma un aggettivo che Arslan adopera ripetutamente per connotare il popolo armeno è «mite» e la mitezza del suo popolo – e, forse, della sua lingua – imbeve di dolcezza e lacrime di dolore e rabbia l’italiano scritto di Arslan.
Forse l’autrice ha trovato sufficienti la musica e il corpo della lingua italiana, forse l’italiano è adeguato a rendere la dolcezza del temperamento dei perseguitati e lo slancio verso la società umana – o, invece, viene adoperato per porre una pur minima distanza da ricordi altrimenti insopportabili, se ricondotti alla lingua degli avi, imbevuta di troppo dolore, della memoria viva del «paese dei morti».
Questa considerazione risale le generazioni, visto che, per angoscia o paura, dopo il genocidio, il nonno impedì che la lingua armena venisse tramandata ai figli, genitori di Antonia Arslan.
Dunque l’armeno sta a rappresentare, per Arslan, la lingua proibita della terra perduta… Un fenomeno straziante e affascinante insieme. Una terra lontana, una lingua lontana – che però la riguarda, nella carne e nel sangue.
Ma di certo nessuna lingua basta, per raccontare un genocidio, per rievocare la dannazione di un’anamnesi quasi non condivisibile, la cacciata da un Mondo Perduto che un tempo fu reale. Forse la lingua non basta, a dire quelli che chiamiamo «esilio» e «strage».

Helena Janeczek: una difesa lingua madre e l’italiano della separazione. Helena Janeczek, nella sua vita “orale”, si muove fra le lingue, avendo imparato a comprendere per istinto quale sia la lingua che il momento – o l’istante, il frammento – di vita e conversazione rende opportuna. Una disinvoltura cosmopolita appresa per affetto e paura, due grandi temi che si dibattono nella sua opera.
Ma questa complessità ci cala in un problema anche legale, oltre che affettivo e linguistico, nel racconto di un’identità divisa tra un preziosissimo passaporto tedesco e l’acrobatico ottenimento di un permesso di soggiorno in Italia. Naturalmente la scissione lascia segni nella scrittura: più che nella lingua, nel temperamento della lingua, nel suo essere sinceramente brusca e sinceramente introversa, senza fronzoli e senza concessioni.
Il polacco, però, la lingua madre, rimane sullo sfondo, inafferrabile come un trasparente oggetto di desiderio: non certo perché Janeczek, volendo, non saprebbe impararlo, ma perché la sua vita adulta si erge a protezione della lingua madre, desidera preservarla dall’usura. Ma, insieme, desidera differenziarsi. L’italiano, lingua pur amata, viene dunque scelto come lingua della separazione e della realtà, dell’identità adulta e voluta, se Janeczek ha deciso di vivere in Italia e di scrivere in italiano per distanziarsi dalle troppe aggressività del tedesco. La nostra lingua sembra per lei la lingua dei diritti e della vita, della precisa volontà di sciogliersi da un ambiguo, profondissimo legame con un’altra terra e un altro corpo, che parla un’altra lingua. L’italiano è per Janeczek parola che si presta a essere gualcita dall’uso, alla pari del proprio corpo e del proprio esistere, adulto e indipendente.

Jhumpa Lahiri: la solitudine del corpo estraneo parlante. L’italiano, lingua che Jhumpa Lahiri assume per la prima volta nel 2015 per In altre parole, dopo una pregressa confidenza con la lingua inglese, nel 2018 è ancora un italiano esatto, asciuttissimo e come impastato di malinconia.
I frammenti “semi-onirici”, come scrive Andrea Cortellessa, di Dove mi trovo descrivono una prima persona femminile che si muove in una Roma che a noi pare vista per la prima volta, raccontano un corpo estraneo quasi nebuloso, profondamente duttile e separato, che informa della propria malinconia ogni cosa toccata dal suo sguardo.
Jhumpa Lahiri sembra dunque prendere la parola a nome dei concetti di estraneità e mutamento, sembra voler descrivere la condizione di un esule che rimane esule, pur essendo integrato in una città amata, che davvero desidera esplorare e conoscere.
E decide di farlo adoperando la lingua dell’esilio.
La scelta lascia pensare a uno scopo collettivo della narrazione. possiamo riconoscere la volontà di stare più profondamente in relazione con il corpo fisico del luogo – se lingua è corpo e appartenenza –, un desiderio di arrivare a conoscere il luogo attraverso il ponte della lingua, allo scopo di meglio raccontare a noi “indigeni” la ferita collettiva dell’estraneità degli stranieri?

Giuseppe Samonà: una lingua italiana gettata nell’intelligenza del mondo come una rete a strascico. Passato attraverso molte rinascite (in francese, inglese e spagnolo), l’italiano-madre torna a Giuseppe Samonà esatto e spezzato come un’equazione matematica, continuamente inceppato, arrotolato in una serie ininterrotta di rimandi – a sé stesso o ad argomenti e voci eterodiretti.
Samonà getta con generosa allegria la sua parola nell’intelligenza del mondo – e del lettore di quel mondo – come una rete a strascico, raccogliendo una mischia suggestiva e ironica di memoria e detriti, i serissimi giochi infantili insieme a svelamenti dell’intelligenza matura, filosofica e, spesso, poetica.
La sua scrittura in lingua madre pare dunque voler simulare il magma gioioso e amaro dell’esistenza, lo stream of consciousness occidentale contemporaneo. Tempo interrotto uguale lingua interrotta. Ma uguale, soprattutto, alla verità del nostro esistere psicobiologico.
Viene allora da chiedergli quanto le lingue – e le persone – che ha incontrato ed eletto si siano infiltrate nella lingua madre – o se l’italiano, come forse possiamo dedurre da tanta sua assoluta libertà, sia rimasto il territorio franco e quasi incontaminato di un legame primario con il mondo.

Ornela Vorpsi: la necessaria fragilità dei mortali. Ornela Vorpsi scrive che nella terra-lingua italiana gli albanesi, creature in patria immortali, comprendono di poter morire. Dunque gli albanesi che desiderano sentirsi immortali tornano in patria. lei invece sceglie di rimanere in terra straniera: vive a Parigi e scrive in italiano, la lingua di una terra dove è stata di passaggio, la lingua del primo approdo del suo esilio. Perché?
L’italiano sembra essere l’assunzione della coscienza di una fragilità necessaria a vivere, poiché senza la coscienza della morte la vita non rileva, non è vita. È questo il punto?
Una lingua imparata in età adulta viene adoperata per de-scrivere l’oggetto radioattivo dell’infanzia e della terra perduta. Vorpsi racconta una crescita (collettiva) costretta a districarsi fra le strettoie del regime comunista: probabilmente perché, per parlare di tanta pericolosa intimità, è necessaria una distanza.
L’italiano di Vorpsi, ironico e disincantato, vuole arrivare a porre una distanza razionale dalla nostalgia?
Le stesse cose, raccontate in lingua madre, sarebbero forse insopportabili?

Come si dice amore nella tua lingua

«Le lingue non hanno confini, i confini sono solo politici» «Esiste una lingua invisibile alla quale attingiamo tutti» «Ogni scrittura è traduzione di un mondo» «Io attraverso le lingue che conosco in cerca della lingua universale». Questa è la vera avanguardia, la vera
profezia per il futuro della specie.

Fekrì, hubùn, dashùri
sirèl, bhālabāsā, agàpi
uthàndo, ài, jeclahày
süyüü, obichàm, aròha
lyubòv’, hkyithkyinnmayttàr
khairtài, cariàd, upéndo
amour, is bràe, snēhàṁ
maxabbàt, szerelém, rudo,
ādaràya, fitiavàna
liebe, evîn, miq’vàrs.

Continuate in settenari chiari
con questi suoni, nuovi come il mondo
che dicono da prati
e da foreste, igloo, capanne
e palafitte, grattacieli e canoe: io, questo niente
caduto nel sogno della materia, avrò cura di te
fino alla fine del mondo.

Roma, 9 febbraio 2019

Allego infine una vera e propria dichiarazione di poetica in versi, che non credo abbia bisogno di spiegazione aggiuntiva, essendo forse superflua anche questa brevissima nota introduttiva. Quello che penso della poesia al momento è tutto qui e l’ho già scritto: uno strumento di “armonizzazione”. Non certo nel senso ecumenico della rimozione del conflitto: credo sia anzi necessario attraversare frontalmente ogni conflitto e dolore, per raggiungere il senso profondo e radicale del suono e della sostanza dai quali tutti veniamo e ai quali tutti apparteniamo. Dunque che tutti: siamo.

L’ambiziosissimo titolo, evidentemente dantesco, rappresenta nella mia esperienza la massima comprensione, dunque la massima aspirazione e prospettiva umana, quanto – a tratti e per illuminazioni – è dato di sapere del mondo: più che una rete di senso, una rete di compresenza, di simultaneità di tutto con tutto.
Credo che il luogo dove la vita dovrebbe portarci sia la stessa dilatazione grazie alla quale nasciamo, la mano «slargatamente aperta» (nella traduzione dei De Portu) dell’animale rilkiano che siamo.

Intelletto d’amore

La poesia è anarchica, risponde a leggi solo proprie, non può e non deve piegarsi a
nient’altro
che a se stessa.
La sua legge interiore è ritmo, musica assoluta.
Questo spiega la commozione che proviamo nell’ascoltare letture di poesia in lingue a
noi sconosciute.
Abbiamo l’impressione di comprendere
anche se non capiamo le parole,
perché le nostre molecole consuonano con la musica profonda della poesia,
che è la stessa in ogni lingua: un ultrasuono, un rumore bianco.
Una lingua invisibile, un ronzio nucleare
traducibile per approssimazione,
una sonorità che entra in risonanza con la parte più estranea e profonda delle nostre
molecole
e col rombo primario della materia
che compone la sedia
sulla quale sediamo.
Come certa musica – penso al Chiaro di luna di Ludwig van Beethoven – è un
linguaggio
letteralmente universale:
i poeti lo scrivono da sempre, ma le recenti scoperte astrofisiche lo confermano
con rigore scientifico, non più solo intuitivo: il nucleo più profondo di noi
è composto della stessa materia delle stelle.
Parole di Margherita Hack: «Tutta la materia di cui siamo fatti l’hanno costruita le stelle. Tutti gli elementi, dall’idrogeno all’uranio, sono stati fatti nelle reazioni nucleari che avvengono nelle supernovae, stelle molto più grandi del Sole, che alla fine della loro vita esplodono e sparpagliano nello spazio
il risultato di tutte le reazioni nucleari avvenute al loro interno».
Dalle scoperte ultimissime sappiamo ancora che
metà degli atomi che formano i nostri corpi è materia prodotta fuori dalla Via Lattea,
viene da una distanza che non si può
commensurare.
La vibrazione delle nostre molecole entra in risonanza materiale con la vibrazione
dell’universo,
fin dentro l’universo sconosciuto. Questa forza
«che move il sole e l’altre stelle»
è quella che Dante chiama «amore».
La poesia intercetta il corale profondo e ininterrotto di questa forza, intona la sua
voce
al rombo delle stelle extragalattiche
e al rombo primario della materia
che compone la sedia
sulla quale sediamo.
È un oggetto fatto di parole
sempre d’amore.
E basta.

 

nota bio-bibliografica:

Maria Grazia Calandrone è poetessa, scrittrice, giornalista, drammaturga, autrice e conduttrice Rai (ultimo ciclo: “Poesia in technicolor”), scrive per “Corriere della Sera” ed è regista per “Corriere TV” dei videoreportage sull’accoglienza ai migranti “I volontari” e “Viaggio in una guerra non finita”, su Sarajevo. Tiene laboratori di poesia in scuole pubbliche, carceri, DSM. Premi Montale, Pasolini, Trivio, Europa, Dessì e Napoli per la poesia. Ultimi libri Serie fossile (Crocetti, 2015 – rosa Viareggio), Gli Scomparsi – storie da “Chi l’ha visto?” (pordenonelegge, 2016), Il bene morale (Crocetti, 2017), Per voce sola, raccolta di monologhi teatrali, disegni e fotografie, con cd di Sonia Bergamasco, Fossils (SurVision, Ireland 2018) e l’antologia araba La luce del giorno (al-Mutawassit, Damasco 2019). Porta in scena i videoconcerti Senza bagaglio e Corpo reale. Sue sillogi compaiono in antologie e riviste di numerosi paesi. www.mariagraziacalandrone.it

 

ph tratta dal film Sacrificio (Offret) – 1986 – scritto e diretto da Andrej Tarkovskij, vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria al 39º Festival di Cannes.

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