Il potere e la poesia
Tra meno di un mese, il nove novembre, saranno trent’anni esatti dalla caduta del muro di Berlino e, fatto meno epocale, dieci anni esatti dalla pubblicazione del mio libro Ogni cinque bracciate, poemetto in ottave che aveva come protagoniste le nuotatrici tedesche dell’ex DDR, giovani campionesse costrette ad un doping devastante per poter primeggiare nelle Olimpiadi di Mosca del 1980. Il mondo comunista sperimentava su di loro l’accelerazione di un progresso privo di scopo, così come avveniva, sotto altro segno, aldilà della cortina, nel nostro mondo capitalista. Quel libro intendeva allegorizzare nel corpo delle campionesse di nuoto un destino comune, ma allo stesso tempo si occupava di una fase specifica della Storia. I canti che compongono il poemetto, oltre a tentare di dar forma ad una deteriore cultura occidentale, costituiscono anche una discesa nel mio inconscio personale. Non avendo vissuto la vita di un berlinese tra gli anni Settanta e Ottanta, gli anni che corrispondevano alla mia infanzia e adolescenza, ho potuto e dovuto adattare la parte orientale della mia città a quegli scenari alienanti, ho dovuto guardare l’Europa nascosta attraverso il filtro della Napoli velata. Non la città celeste, bagnata dal mare e dal sole, ma la città delle fabbriche e dei capannoni industriali, la stessa città che ho frequentato da ragazzino. Il blocco sovietico dell’Europa si sovrapponeva così al mondo operaio che aveva fatto da sfondo alla prima parte della mia esistenza come un calco jungeriano. Al centro della mia visione c’era mio padre. La sua figura, forte e normativa, segnava il confine, lo spazio entro cui si giocava la realtà. Nel poemetto, la figura paterna compare nelle vesti del padre di Renata, la dorsista del gruppo che avanza “con le spalle rivolte al futuro”; è lei che osserva la sagoma del padre e di un mondo prossimo alla fine. Quando ho scritto queste sequenze, la zona orientale di Napoli era stata dismessa da anni e mio padre era appena morto.
“Mio padre si soffiava nella conca delle mani,
si strappava la pelle dalla bocca
dicevano che aveva una forma d’ansia per il domani
che prima o poi la depressione tutti tocca
se vivi osservando l’ombra che mangia i divani,
se resti a guardare come il suo spazio trabocca.
Mio padre però ci ha provato,
lui diceva sempre che se ne sarebbe andato.
Lo diceva sputando veleno, a mia madre,
quando tornava dal turno serale,
un tempo portava zollette di zucchero, ordinate a squadre,
con sopra ogni volta la figura d’un diverso animale
poi ha smesso di ridere, mio padre,
ha iniziato a stare male,
lo hanno preso due volte rannicchiato
come uno straccio vecchio nel filo spinato.
Non ha chiesto scusa, non ha pianto,
è rimasto come un bambino a fissare il soffitto.
A volte mi parlava di suo padre e di quanto
aveva sofferto vedendolo morire, afflitto
del suo stesso male; ma lui non aveva pianto,
aveva solo pensato che non era stato sconfitto,
che non era vero… suo padre era un mito,
suo padre era fatto di granito!
Poi un giorno ha iniziato ad usare la mia mano
come i pistoni di un solfeggio immaginario
o come le tavole per i conti di un antico romano,
lasciava che i giorni scendessero come granelli d’un lunario
tra i sui polpastrelli e il dorso delle mia mano.
Ha contato, ha contato, temerario,
stringendo le labbra tra i denti,
ha scontato con pazienza il destino dei perdenti.
Mio padre se n’è andato magro e sbiadito
senza un malanno preciso
è morto senza un grido, sfinito,
stringendo il suo pugno nel mio, deciso.
Mio padre forse è fuggito,
qualcuno ha detto che è come si fosse ucciso.
Mio padre mi ha lasciato dentro solo un gran rimorso,
per questo ad ogni gara stringo le labbra in un morso.”
L’immagine di un uomo depresso non corrisponde certo a quella di mio padre, che è stato, invece, nell’arco della sua vita, un uomo gioviale e sorridente. Queste ottave, poste al centro del libro, rappresentano la volta di una cattedrale che è sul punto di crollare. Con la caduta del muro, il magma indistinto del neoliberismo avrebbe inondato anche la parte di continente resiliente al capitalismo avanzato. L’idea di purezza coltivata troppo a lungo si trasforma in marcescenza, così, dopo il crollo, le campionesse sono tornate agli onori della cronaca con i loro corpi deformi e corrotti dalle sostanze dopanti: l’est e l’ovest mostrano d’essere affette dalla stessa malattia.
[…]
Se anche gli altri potessero vedere
come diventa anemico questo verso,
saprebbero dire dove ho vissuto finora,
nella carne della nostra lingua sonora,
saprebbero raccoglierne ogni particella,
saprebbero fermare questo franare
di piastrine che gela………………….
……………………………………….
……………………………………….
questo tremare
-dell’aria che svela
la realtà che scompare
quando è proprio qui, alla mia portata,
sulla soglia della mia bocca malata.
Ora, che abbiamo provato a trasformare
il corpo proteso in uno sforzo morale,
come i crampi della fame,
in un mondo storico, reale,
abbiamo provato a sanare
questo piega di carne, il suo male,
ora, la voce della nostra tradizione
che fonda ogni ricordo di nazione,
come uno spettro dell’esilio, svapora…
[…]
Con il poemetto, in forma di monologo, Il cane di Pavlov ho provato a dire in poesia “l’estensione del dominio della lotta” dopo la caduta del muro e l’imporsi di un modello unico di sviluppo. La parabola di Martina e Bruno manifesta la microfisica del potere che si innesta nella sfera più intima, quella erotica, per farne laboratorio di dominio e sopraffazione. La protagonista è l’impiegata Martina, una ragazza Carla del ventunesimo secolo, che sperimenta sul timido collega Bruno le fasi pavloviane dello stimolo risposta. Il testo è in realtà il resoconto di una perizia psichiatrica ispirata ad un fatto di cronaca realmente accaduto. Il legame con l’est europeo resta, ed è evidente fin dal titolo. La relazione con quel mondo continua in tutto il testo anche per i richiami evidenti alla tradizione poetica russa, in particolare dell’Eugenio Oneghin di Puskin. Nella parte di testo da me scelto, Martina e Bruno (chiaro il richiamo al protagonista de Le particelle elementari di Houellebecq) hanno appena consumato la loro prima notte di sesso. Siamo nella prima fase dalle quattro previste dall’esperimento di Pavlov, Bruno è la cavia da laboratorio che assapora un desiderio condizionato dall’oggetto. Il motto degli Stooges, I wanna be your dog, diventa qui pretesto per un’analisi del soggetto occidentale, o meglio della provincia occidentale che ripropone istintivamente i modelli dei Paesi capitalistici più avanzati (è esplicito nel poemetto il richiamo ad American Psycho di Easton Ellis). In questo monologo prosodico persino il desiderio e il sesso perdono la loro natura, dimenticano la parte istintuale, per diventare puro artificio funzionale al sistema. Gli amanti saranno portati lontani dalla loro faglia di natura ma, nel momento in cui si predispongono alla manipolazione, Bruno stupisce Martina con una scelta imprevista.
Il vero scandalo di me e Bruno
è che eravamo soli, ed auto sufficienti.
Avevamo trovato una nostra forma
ormai troppo simile all’estasi.
Fuori da tutto, lontano da tutti.
Volevo che Bruno dimenticasse il mondo.
Ho alimentato il suo desiderio,
raccontandogli aneddoti sul mio passato.
Voleva sapere, raccogliere tracce?
Io l’accontentavo.
Gli ho raccontato di quella volta,
a Berlino, che un uomo mi ha legata al letto:
“Avevo risposto ad un annuncio,
pubblicato su un giornale porno,
un tizio cercava una donna
su cui sperimentare una nuova forma
d’umiliazione; voleva una cavia.
Sai quanti giorni mi ha tenuto legata?
Un’intera settimana.
Intanto faceva di me quello che voleva.
Ho ancora i segni.
Guarda queste macchie sulle braccia!
Sembrano i resti della vaccinazione,
quelle che si facevano contro il vaiolo:
sono ustioni, provocate con un braciere.
Facevano male, eppure, non so dirti come,
mi davano piacere. Vuoi provare?”
“Si, lo voglio.” Ha risposto come uno sposo,
che volesse quella piaga sulla pelle,
come un’insolita fede.
L’ho bruciato con un timbro,
roba del vecchio ufficio,
lasciato ad ardere su un fornello.
Gli ho lasciato sulla spalla un visto.
Ha provato dolore, ha urlato.
Gli ho disinfettato la ferita con un po’ d’alcool.
Dopo la prima ustione,
ce ne sono state altre.
Anch’io mi sono sottoposta,
mi sono segnata in mezzo al petto.
Il resto è stata una conseguenza.
Forse volevo anch’io un mio compagno,
ero stufa di star sola,
di sentire gli umori di amanti occasionali.
L’ho liberato solo durante la notte.
La domenica si è presentata arida di rumori.
Lui mi ha raggiunto di sotto,
mi ha abbracciata mentre preparavo la colazione.
Siamo rimasti alcuni secondi
a fissare i nostri volti,
riflessi nel vetro della finestra.
Eravamo cambiati, felici.
Fuori il tempo sgombrava la sua tela,
si era chiuso come un pugno sulla vita,
domani, domani e ancora domani…
….passo dopo passo….scivola via….
avessimo avuto dei veri nemici
avremmo fatto stragi, io e Bruno,
ma non esistono veri scontri,
esiste solo il nulla e le sue possibili forme.
E noi dovevamo crearne una nostra.
“Io non so come fare a tornare lì fuori”.
Lui ha detto, o forse sono stata io a dirlo.
Ma i patti erano stati chiari.
Io dipingevo sulla tela la nostra opera.
Lui sarebbe rimasto legato al letto,
io mi sarei occupata del resto.
Quella domenica abbiamo deciso.
È avvenuto perché abbiamo visto
con gli stessi occhi, ciò che ho sempre
avvertito da sola.
Abbiamo saltato il pranzo,
abbiamo mangiato quando ormai era sera.
A tavola Bruno ha detto:
“Vorrei nutrirmi della tua carne”.
Adesso sono convinta che abbiamo attinto
dalla domenica la nostra sostanza.
Bruno aveva trovato il suo deserto
in cui espiare la quaresima.
Io ero il suo dio in terra, la sua Maddalena.
È stato lui a chiedermi di legarlo ancora.
Era molto determinato,
il suo volto era cambiato.
Gli ho fissato per bene le manette.
Siamo stati insieme un’altra volta.
Poi ho dormito al suo fianco, senza slegarlo.
La mattina dopo mi sono preparata
per andare al lavoro. Lui mi osservava,
mentre indossavo la gonna,
la camicia, le scarpe col tacco basso.
“È strano vedere mentre ti vesti,
sono abituato a vederti così in ufficio,
con addosso già la tua divisa,
non cambi mai stile. Lo capisco.”
Gli ho sorriso. Sono scesa di sotto,
ho preso un caffè, guardando la finestra
chiusa sulla strada,
mi è mancato il suo volto riflesso sul mio.
Sia nel testo del 2009 che in quello del 2013 esiste una via d’uscita dal meccanismo di sopraffazione e dominio che si palesa solo al termine di una dinamica vessatoria. Gli stessi personaggi dei poemetti scardinano lo schema che l’autore si è dato per palesarsi come eccezioni (la rottura dell’ottava nel libro sulle nuotatrici e il finale aperto nel libro del 2013), si trasformano in figure paradigmatiche. Il lavoro di composizione che sta dietro questi lavori, quindi, non è assimilabile all’afflato lirico, all’espressione di un’interiorità. Detto per inciso, il lirismo ingenuo, così come fa notare Martina in un passaggio de Il cane di Pavlov, è esso stesso espressione di un desiderio volitivo (narcisistico) dettato dalla macchina del controllo (ciò che il filosofo Zizek chiama impianto). In questi lavori ho voluto mettere in scena la meccanica e il sistema di potere, considerando in esso la trappola e lo scarto dalla norma. La poesia agisce come prova dell’eccezionalità dell’individuo dal determinismo tecnologico, scientista o evoluzionista. Aldilà di una prima impressione, a dire il vero semplicistica, che potrebbe ridurre questi testi al genere epico-poematica, bisogna quindi catalogarli come strumenti per una verifica dei poteri. Dopo i due poemetti, la rappresentazione del contemporaneo in versi si è fatta “più mossa”, per riportare l’espressione del bravo poeta e critico Carlangelo Mauro. Ne Le pause della serie evolutiva, pubblicato integralmente nel 2016, il lutto per la perdita improvvisa del padre diventa ancora il sentimento che induce ad indagare la faglia che abitano le creature fornite di parola. Il testo che qui propongo nasce dalla visione della foto che ritrae un orso polare agonizzante a causa della mancanza di cibo in seguito al ritrarsi del pack. La creatura si rivolge all’uomo, gli dà del tu, lo ammonisce circa alcune questioni essenziali.
Se queste pietre avessero pietà
per le mie ferite, io avrei ragione,
in quanto animale tra le creature,
perché l’accento che tu noti, il dolore,
è solo memoria che si corrompe
e, pensa bene, non vale niente.
Ora il mio modo d’avere voce
è un rantolo che non m’appartiene,
che mi distrae dal battito del cuore.
E tu pure, dall’altra parte,
ti rassegnerai alla forza che si sprigiona
nel momento estremo della caccia,
alla preda, che non si nasconde,
che si è estinta dalla faccia della terra.
—
nota bio-bibliografica
Vincenzo Frungillo (Napoli, 1973). In versi ha pubblicato Fanciulli sulla via maestra (con una nota di Milo De Angelis e prefazione di Eugenio Mazzarella, Palomar, 2002), Ogni cinque bracciate. Un estratto (finalista premio Delfini, edizioni Galleria Mazzoli, 2007), Ogni cinque bracciate. Poema in cinque canti (con una prefazione di Elio Pagliarani e una postfazione di Milo De Angelis, Le Lettere, 2009), Il cane di Pavlov. Resoconto di una perizia (Premio Russo-Mazzacurati, edizioni d’If 2013), Le pause della serie evolutiva (Oedipus, 2016). Per il teatro ha scritto Il cane di Pavlov. Un monologo (Premio di drammaturgia Fersen, Editoria & Spettacolo, 2013) e Spinalonga. Una drammaturgia sulla corruzione (con tavole di Davide Racca, Zona editore, 2016). Ha pubblicato inoltre il saggio Il luogo delle forze. Lo spazio della poesia nel tempo della dispersione (con disegni di Francesco Balsamo, Carteggi Letterari le edizioni, 2017). Un nome in meno (Ensemble, 2019) è il suo primo romanzo.