Emanuele Franceschetti, “la poesia è un atto veritativo”

“La poesia è molto ostile alle definizioni normative e/o prescrittive. La poesia è un atto veritativo: una forma di decostruzione (prima) e ricostruzione (poi) del pensiero, che permette alla parola di riguadagnare un nuovo, definitivo peso specifico. Non è un mero esercizio d’artigianato, né un funambolico esercizio mistico: ma, probabilmente, ha in sé qualcosa di entrambi. Non sono sicuro che una poesia possa davvero dirsi “compiuta” in maniera inequivocabile. Potrei dire però, banalmente, che una poesia lo diventi quando un ulteriore lavoro sul testo sarebbe solo autocompiacimento, maniera, forzatura”.

Due poesie da “Terre aperte”, Italic Pequod

Cantavamo Faber a una voce sola.
Hai baciato la mano
felice sempre di farlo risuonare
ed io sono trasalito.

Un canto di tetti bagnati
sfalda e ricompone le linee di un volto
che ero anch’io.

Vorrei essere l’intruso del mio tempo.
Scorgermi inatteso, ritrovarmi
dentro i giorni, i volti, i nomi.
(C’è, in ogni memoria, una donna. L’universo
ristretto nella carne, la maternità del mondo)
Quest’aria intorno brucia nel tramonto:
dicembre sa sciogliere il cammino della neve, sa attardarsi
in uno spazio di silenzi rarefatti. Qui
è ancora giorno. Lo colgo nel suo transito,
nell’annuncio, nei linguaggi del ricordo,
tra le permutazioni e le scomparse.
(Ci sono ore buone per i vocativi,
per le correspondances)
Se la parola è nuda, luminosa
sa spingersi oltre il chiuso della storia
e aprirsi sul suo gorgo, riaffacciarsi:
la voce è il solo scarto, la rivalsa
-allude al vento, al canto delle cose
che non frena la luce, la contiene.

*

Ad alcuni anni dalla plaquette d’esordio, da quel labirinto in cui muoveva i suoi primi passi in versi, Emanuele Franceschetti torna alla pubblicazione con un libro che ne certifica gli enormi passi di maturazione, frutto di un incontro più adulto e sostanziale con la vita, come pure di letture che si sono ampliate e fortificate, divenendo spesso le più fedeli compagne della quotidianità. Franceschetti viene dalla musica […] e, nel ritmo che indubitabilmente percorre la sua versificazione (sempre il verso si lega al ritmo, come la voce al respiro), s’avverte – in questo nuovo libro – una solidità diversa, una domanda più fonda e inchiodante, un bisogno d’aria e di luce più necessitante ed esistenziale, ben al di là dei modi. Lo stesso titolo, Terre aperte, rappresenta questo radicamento che è tuttavia anche spaesamento; radice e aria; fondamento e apertura. Franceschetti sente consuonare in sé la lezione di alcuni classici del Novecento, a cominciare dall’amato Betocchi, giù giù fino alla radicale asciuttezza di Sereni, sì che nei suoi versi non c’è alcuna concessione al di più: tutto è calibrato, pensato, scelto e depositato al millimetro, ma in forza di un impeto interiore che è passione e carne, dolore e fiato, domanda e storia, infinito e quotidianità.

(stralcio dalla nota di Filippo Davoli, al libro “Terre aperte”, Italic Pequod, 2015)

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