salti quantici
Il viaggio non si compie mai. Neanche quando si decide di smetterlo. Il viaggio non ha meta, sposta il confine, chiede di andare. C’è sempre un qualche dove, un altro quando, un incerto come: luogo tempo modo che sostengono e incoraggiano l’inesausto superamento del limite. Ci sono fuochi lontani che incendiano la notte ma che scompaiono appena si tenta di raggiungerli, ci sono stelle che, unite con lo sguardo, sembrano tracciare una direzione luminosa, chiara, che ferisce il buio e somiglia a un orizzonte. Quelle stelle che Tagore non voleva contare, perché se le conti non riesci a vederle. Quelle stelle che “nelle tempie qui e non nel cielo” sembra che pulsino.
“E se questo mare non finisse. … E se non vi fosse terra. Non vi fosse limite.”.
Il viaggio si imprende perché si concede al ritorno, quando il mare del dolore tende a placarsi, la circolarità della vita che gira su se stessa, distratta e allontanata dalle maree, il circuito chiuso dentro il quale precipitare il pantarei della nostra risonanza. Cosa sono in fondo i ricordi, se non un continuo riandare, come l’onda che si srotola contro la riva, e la ricopre e si ritrae e torna a leccarla, e così fino a quando non si quieta, un voler trovare l’inizio, la comprensione dell’origine, la derivazione del senso, la sostanza e la piega delle cose. E cosa sono i pensieri che si riflettono, se non un ruminare smarrito, un girare intorno e cavo, un ripetere che diventa memoria, un battito sinaptico che si riaccende, un ri-volgersi a quello che è già conosciuto. “L’immagine attuale del mondo nel cervello contiene sempre anche un frammento del passato e quello che si esperisce come “ora” non è confinato nello stato attuale.” Scrive Valentino Braitenburg. “La conoscenza esistente influenza sia l’acquisizione di nuove informazioni non conosciute sia il modo in cui esse vengono ricordate.”, scrive Joseph LeDoux.
Il viaggio parte sempre da se stessi, dal proprio ignoto, per riconoscerlo quando sarà di nuovo possibile alla vista, trasfigurato dalla tempesta, accaduto improvviso, travolto ed emerso dal caso tellurico degli eventi, per sentirsi, infine, persi e perduti dentro “una mente senza fine mai”.
Ed è proprio da qui che parte il viaggio verso le stelle glaciali di Tommaso Di Dio. Dalla sua vita, dalla sua Milano. “Sono nato e vivo in una città e … spesso lo scatto iniziale della scrittura avviene proprio per strada… per me era importante partire da dove vivo, dal luogo concreto della mia esistenza.”
Il viaggio del poeta comincia sempre da una solitudine. E Di Dio è un poeta, un poeta che, con l’immagine della parola, con il bisturi dello sguardo, opera la chirurgia delle solitudini, senza anestesia per chi legge. Sono istantanee, Polaroid di silenzi di vite che non sanno e non possono sopportare il peso estremo del destino, che non si accorgono dell’altro, che è lì vicino, che è proprio lì, accanto, con lo stesso dolore, algido, metallico come le atmosfere urbane dentro il quale capita (“volevo far emergere quanto la solitudine rappresenti una forma di esclusione”, spiega Di Dio, “l’apparire di qualcosa che, pur accadendo vicino a noi, ci esclude: ci riduce al silenzio”), solitudini indifferenti alla propria stessa vivenza, che si trascinano nei bar, nella metropolitana, nei supermercati, nello stesso ospedale dove l’amico vive una morte innocente, che buttano quel che rimane dentro una corda, impiccandosi, straniero senza asilo, alla stazione, in uno dei tanti che Max Augè chiama “non luoghi”. E la scrittura insegue quel vuoto, quel silenzio, si sottrae, lascia tutto al campo ottico, si ritira dietro lo sguardo e lascia vedere quello che si lascia vedere, senza violare il pudore rassegnato della disperazione.
Il suo amico Mario Benedetti diceva della sua scrittura poetica d’esordio: “L’esperienza non è qui depositata nel verso centripeto di un tasto che spicchi sul bianco della pagina… si ha la sensazione, anche visiva, che il nero della parte scritta si confonda con il bianco vuoto della pagina stessa. Le parole diventano così ombre e non segni marcatamente incisi, e il tutto risulta … attesa di un qualche compimento.”
Allora ho pensato a Le Corbusier, alla forma di Le Corbusier, che non è solo forma piena, conclusa, perseveranza di materia, volume che ingombra, inerzia urbana che non cambia stato, cemento duro. È anche vuoto. La forma dei vuoti, in Le Corbusier, è pensata come la forma dei pieni. Il vuoto non è residuo. È architettura. “Il vuoto è forma positiva nell’involucro che lo concretizza.” scrive André Wogenscky. “E questa importanza del vuoto che carica l’architettura di significato.”
La scrittura di Di Dio è architettura piena di vuoto. È fatta di parole piene di silenzio. “Sartre chiama ‘silence’ la produzione di senso”, dice Nicola Gardini.
Ma, per procedere nel viaggio, bisogna liberarsi dal dolore, quello che ti deriva e non te ne accorgi perché ti consegni al suo arbitrio, quello che ”la parola non può dire”, non sa dire, quello che ti frantuma, ti fa diventare “la fine di ogni luce, una massa buia, una sorta di buco…”.
Perché il viaggio è una visione “senza disegno, senza scopo…” e il dolore rende ciechi, come l’“immenso e cieco mare” che, nelle notti in cui “le vele… sono guance di pianto”, Colombo/Di Dio affronta. Il mare che non ci guarda, il mare che non ci sente, il buio senza suono: “… mentre ognuno nel buio vede ciò che più teme”.
Cerco la definizione di “visione” sul vocabolario Treccani: “Apparizione, immagine o scena del tutto straordinaria, che si vede, o si crede di aver visto, in stato di estasi o di allucinazione, o in situazioni e per cause miracolose e soprannaturali, oppure anche in sogno.” E Di Dio cita, a ragione, Derrida: “un viaggio che non fosse in vista di ciò che non è in vista, sarebbe ancora un viaggio?”
Il viaggio è solo quello di Colombo, non ce ne è un altro, è il sogno di un’idea, che Di Dio percorre attraverso il suo diario – “la traduzione ricostruita di un originale perduto” – e la sua inesorabile solitudine.
Ma il viaggio è anche quello di Di Dio, l’occhio e, al tempo stesso, il rasoio di “Un chien andalou”, affilato sul mondo, fatto del riflesso di un albero stecchito di rami e di radici oscure, di fotografie di uomini sul tetto che si incontrano sulla vertigine dei grattacieli e sembrano ombre spettrali o sul tetto dello studio Nadar, dalle vetrate trasparenti, nascosti tra le fioriere che guardano chi li guarda, in uno scambio di prospettiva di vite e di domande ( “Chi è, invece/ l’uomo che guarda?); fatto di grotte preistoriche in un “levare di tutto il fiato”, di una luce bianca di corpo (non importa se è Touluse-Lautrec fotografato dall’amico Maurice Guibert) che, mentre nuota in un bacino d’acqua il cui stretto passaggio lo riunisce all’oceano, disegna cerchi concentrici che si propagano come onde sonore; fatto dell’ombra cinese del pittore Gustave Courbet erto su uno scoglio, figurina estatica di cui si scorge il braccio alzato a salutare il mare, perché “… è l’uomo/ davanti al vento quello/ più esposto al vero.”; fatto della foto che si dice “Suono” e che ritrae la profondità del mare, l’abisso che aggalla in superficie e si svela e smette di essere mistero allo sguardo, “Ma devo dire./ Devo scrivere./ Dopo tanto guardare il nero mare;/ il nero spazio senza contorno né coesione.”
…“E se io già/sono da sempre/nel mare/ come chi s’è perduto.”