Giampaolo De Pietro, “Dal cane corallo”: l’indiviso il “fiato” della poesia.

 

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«Lunga / lunga ombra / della mancanza / mi stai di spalle / e fiuto a fiato / mi allunghi a te / e io a me – siamo / davvero lunghissimi: / infiniti, direi». Versi di Giampaolo De Pietro, scelti per introdurvi alla lettura del libro “Dal cane corallo”, impreziosito dai disegni “parlanti” di Francesco Balsamo, la cui beltà (“fedeltà più bellezza”) ci (ri)conduce al prodigio dell’esistenza. Il poeta accoglie la voce di Tobia, «naso di velluto» che «scova la vita», che «corteggia ogni cespuglio», che «ascolta vocali / aperte e pure / sguardi che si / trattengono in silenzi», che «corre col fiuto / puntando un sacchetto / animato dal vento».

Qual è stata la scintilla? Come nascono i versi che animano “Dal cane corallo”? Chi li ha dettati? Come li hai raccolti?
L’amicizia con il cane Tobia, gli anni passeggiati insieme, gli occhi e il fiuto che inevitabilmente ci siamo scambiati – per diciassette anni: non potevano che prendere la via dei versi, per me, a un certo punto – sempre qualcosa che non c’entra col dire, né con il volerlo fare, forse semplicemente col provare, come con un altro senso, ecco – provare altrove, un altro dove, altro da, che poi è quello che non sai. E poi quanto possa essere altro, di diverso e magico, il fare insieme (l’essere semplicemente, naturalmente, in rapporto) a una creatura di un’altra specie (mi aveva fatto riflettere, una volta, su questo, un amico psicologo, Paolo, che coi bambini e la sua cagnolina Luna, fa un percorso/cammino/terapia).
Tobia, cane corallo ha raccolto in me questi versi negli anni, all’aria libera delle passeggiate, che spesso mi hanno salvato, dunque li ha dettati questo tempo e l’aria, nello spazio insieme, lo spazio senza parole che li e ci scriveva. Sapevo di volerli raccogliere, ma non come né dove. Poi, ci ha pensato la mancanza. E il ritrovarsi in un silenzio, un silenzio ancora altro. Poi è arrivata la voglia di confrontare i versi, di farli leggere – ma prima avevano come fatto un tragitto: per essere ancora non si sa bene cosa, fiuto fiuto fiuto. Questo premeva. Ed era così privato che potevo pensare solo a qualcosa di segreto. Poi, è arrivato l’incontro con Danilo Mandolini, anni dopo averlo incontrato nelle Marche ed essere stati insieme a trovare la casa di Leopardi. Arcipelago itaca, le sue edizioni, hanno adottato i versi del Cane Corallo, con una veste semplice e bellissima, verde e ispirata – e i disegni di Francesco, perfettamente tra fiuto e fiato, tra i passi, silenziosi a matita, esatti. Che gratitudine, caro Tobia.

“So-solo-pensarlo. Non so / abituare la realtà, mi / sembra di aspettare”. Con i tuoi versi per chiederti: cosa può la poesia contro il dolore? Cosa può contro la morte? Cosa può contro il tempo?
Con i tuoi versi, Tobia – cosa è il dolore? La morte? Il tempo? E cosa è contro. No, questi versi non lo sanno. E chi li ha scritti non sa cosa, e non sa se può, non sa la poesia. Forse fa solo versi, consiste il suo resistere dove è, sempre fiutando e dimenticando la paura, l’essere in vita così inevitabile, e quel mistero fittissimo che respira. Allora, cosa e contro non contano, il respiro si fa, quanti verbi fa lo spavento di “sapere cosa fare” o di trovare un “rimedio contro”. Davvero, non so cosa possa, la poesia, forse – invece – attraversare, stare e osservando ascoltare, ascoltando osservare, essere parte dei verbi che adottano chi ci provi, chi ne viene investito (la vita, insomma, no?).

Qual è il ricordo (o un aneddoto) legato alla tua prima poesia?
La mia prima poesia; punto e virgola. Le prime volte non si dimenticano mai, o saranno per sempre tali. Mi piacerebbe poter fare muro di gomma piuma e dire o considerare che non ho mai scritto la mia prima poesia, però poi mi eserciterei a ricordarlo davvero un poco scervellandomi. Giocavo alle rime? Mi pare mi piacesse e riuscisse (suonasse) la musicalità, l’andante canzonante e poi cose mentalissime ovviamente nel bel mezzo (impossibile) dell’adolescenza. Allora, molto compiutamente, posso dire che debbo ancora scriverla, davvero, la mia prima poesia.

Quale (e per quali ragioni) poeta e relativi i versi che non dovremmo mai dimenticare?
Non potremo mai dimenticare il poeta che ha fatto controcanto (e vento e manto) alla condizione umana (sua, naturalmente – personalissima fino a perdersi da qualche altra parte, da un lato forse irraggiungibile della vita) – con un certo innato lirismo e una data innata insistenza, fino a farcela (nonostante quello che poi, dallo stesso umano concepire, prende il nome di destino), contro e vivamente – vivo per sempre, vibrante, Osip Mandel’štam – il poeta russo che, pur leggendo in traduzione, non riesco a dimenticare, e non riesco a non cercare e ritrovare. Un poeta italiano che sempre mi sorprende e sempre cerco e mai potrò dimenticare, sempre voglio scoprire, è Corrado Costa. Mi sembrano circolari, e con gli spigoli di un’intelligenza da poesia viva e sempre “smontabile”, i suoi scritti – tutti i suoi versi. Le nostre posizioni (che ho anche in edizione originale – inglese-italiano – Our positions – è straordinario ed è stato appena ristampato dalle belle edizioni Benway series). Inoltre lui disegnava, inventava, vorrei moltissimo conoscere i suoi numerosi libri d’artista che sono custoditi alla Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, la sua città.

Qual è la tua ‘attuale’ spiegazione/definizione di poesia?
Spiegazione, definizione – non c’è, non ho, alla mia curiosità, le mie imberbità (sì, parola probabilmente inesistente tra le inesistenti) – nei confronti della musica, ad esempio (che sconosco, e cerco e ricerco); non ho spiegazione né definizione, ultimamente per una certa noia nei confronti di ciò che chiamiamo società (organizzata?), ad esempio. Mi piace cambiare idea, perché l’idea mi piace pensare che cambi me, e noi. Le idee, forse hanno idea di essere una e tante, e magari rivoluzionarie, essendo pure molto noiose e inutili?

Quando una poesia può dirsi compiuta?
Chi lo sa. Sono poesie compiute forse le scintille di Brodskij, sono esattamente circolari e nuovamente scritte e lette (per giunta in traduzione, ripeto) ogni volta (respirano, lo giuro) le poesie di Mandel’štam, spigolose e così profonde da trattenere in sé vertigini che intrattengono un dialogo con le scienze naturali e lo stare sempre al posto giusto che normalmente sarebbe sbagliato, ma in quella poesia è un elemento a scegliersi il posto supremo di qualcosa di così concentrato e aperto, minimo e inevitabile (lirico lirico e terroso). C’è una lingua e tutto il suo passeggero armamentario, una geografia e la sua non fissità. E poi, non lo so. Un non lo so (ma è qui, e sente) infinito, spic(ci)cato, inaudito. No che fa sì, e quadra e centra. Sì. Pur rimanendo dove non si sa. I verbi e i numeri, la realtà che si disfa essendo, il verbo stare e la contemporaneità di un accadere, mutevole, forse incomprensibile. Niente da aggrovigliarsi per niente da capire.

Oggigiorno, qual è (ammesso ne abbia uno) l’incarico della poesia?
No, nessun incarico, disoccupata per partito preso e perso. Assunta, semmai, ma da una qualche silenziosa impresa di nuvole che intanto hanno cambiato (il) cielo. Questo sarebbe un discorso non consono a uno come me. Mi perderei. Sarebbe bene per evitare di fare i superficiali, stare bene (o, come si deve) in superficie alle cose (la poesia vi sorvolerebbe, essendo ciò che, dentro e fuori, sta, comprende) – come ho sentito dire (in modo di certo più chiaro e brillante) al poeta Nanni Cagnone (lui si riferiva anche alla lettura).

Riporteresti una poesia (di altri autori) nella quale all’occorrenza ami rifugiarti?
C’è questa poesia di Francesco Balsamo che mi sembra perfetta (viva, circolare, costantemente nuova, ogni volta che la rileggo mi ritrova e scova nuovi tratti di una curiosità che per me una poesia dovrebbe/potrebbe destare in chi legge):

dovevamo essere barche
galleggianti non per tempo
ma per acqua
indicare una riva e tornare indietro
in una rotazione frusciante
attorno all’unico albero

dovevamo mettere in acqua un braccio
piegato ad angolo come un timone
e cospirare col mare

inclini ad andare al largo
avanzare instancabili in linea retta
in una semplicità di andata e ritorno

dovevamo cominciare e finire con la parola sempre
perché sempre è un tuffatore
e mettere in acqua
la grande fatica fatta di case e alberi

dovevamo essere barche chiamate da lontano
e dire in grigio baltico o in glaciale artico
dove finisce la terra

mi potrei, invece rifugiare in Frank O’Hara (ma davvero, cosa può – o chi – rifugiare una poesia? Un intero popolo che abbia perso la strada di casa, magari – uno, una e un popolo):

Poesia

Quando mi sento depresso ansioso scontroso
tutto quello che devi fare è toglierti i vestiti
e tutto scompare rivelando la tenerezza della vita
il fatto che siamo carne e respiriamo e siamo vicini
e tu sei esattamente come sei e allora anche io sono
esattamente come sono e sapendo all’incirca com’è
e cos’è importante per me oltre alle intrusioni
di accadimenti o relazioni accidentali
che non hanno niente a che fare con la mia vita

quando sono con te sento che la vita è forte
e sconfiggerà tutti i tuoi nemici e tutti i miei
e tutti i tuoi e i tuoi in te e i miei in me
la logica malata e il mero ragionamento sono curati
dalla perfetta simmetria delle tue braccia e delle tue gambe
che si aprono e fanno un cerchio eterno insieme
creando una colonna d’oro intorno all’Atlantico
la sottile linea di peli che divide il tuo torso
dà riposo alla mia mente e rilascia le mie emozioni
verso l’aria infinita dove dal momento che siamo insieme
insieme sempre saremo liberi in questa vita
vada come vada

Per concludere, (ri) tornando al tuo libro, “Dal cane corallo”, ti invito, per salutare i nostri lettori a scegliere una tua poesia e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

Tu non sai/ quanto fiato mi dai

È incipit, come-cantato in “Dal cane corallo” – è una cosa che mi suonava intorno alle passeggiate (sin dalle primissime) con Tobia. Forse era destinata al libro? Poi doveva essere un libro che custodisse un po’ quel fiato, un fiato, il suo nel mio.

Giampaolo De Pietro è nato a Catania nel 1978. Scrive e fotografa in versi. Ha pubblicato i libri Tre righe di sole (Salarchi Immagini, 2008), La foglia è due metà (Buonesiepi Libri, 2012), Abbonato al programma delle nuvole (L’arcolaio, 2013), Se i fantasmi vengono dalle statue (con disegni di Rossana Taormina – Collana Isola, 2015); Dal cane corallo (con disegni di Francesco Balsamo, Arcipelago itaca 2019).

 

 

 

(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 26.01.2020, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

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