Siciliana di origine, Grazia Frisina vive in Toscana. Già docente di Lettere nelle scuole superiori. Tra le sue pubblicazioni: il romanzo A passi incerti (2009 finalista “Premio Firenze” 2009), il dramma poetico sulla Shoah Cenere e cielo (2015- rappresentato al museo della Deportazione di Prato), le raccolte poetiche Foglie per maestrale (2009), Questa mia bellezza senza legge (2012), Innesti (2016 – opera vincitrice alla XVI ed. Premio Carver, 2018). Madri, prefazione di Marinella Perroni, tre pièces su alcune figure femminili del mondo biblico. È presente, con alcuni suoi componimenti, in varie riviste letterarie nazionali. Nell’ambito del progetto La solitudine: il pieno e il vuoto (2012), organizzato dall’Associazione “Oltre l’orizzonte”, ha partecipato, come poeta, alla mostra Faccia a faccia con le opere di Edoardo Salvi. Ha partecipato al festival di poesia Notturni di versi di Portogruaro (2016). Presso la biblioteca San Giorgio di Pistoia ha curato La gioia diventa un dipinto, incontro sulla poesia di Emily Dickinson, tra arte e musica (2014). Ha ideato e curato i dialoghi poetici: Ricordi come raccoglievamo i narcisi sulla storia d’amore fra Sylvia Plath e Ted Hughes (biblioteca San Giorgio, Pistoia 2015) e Il mare nel vento – Una voce dentro l’altra, sull’amore fra Elizabeth Barrett e Robert Browning (casa-museo Guidi, Firenze 2017). È presidente della giuria del Premio Borgognoni.
Qual è il ricordo (o un aneddoto) legato alla tua prima poesia?
Dunque la prima poesia…. devo andare indietro nel tempo, agli anni dell’adolescenza, quando la vita tutta è un tumulto fatto di polarità estreme, di rabbia e ansia, di eccitazione e sconforto, di illusioni e disincanti, quando non c’è un volto in cui riconoscersi, non c’è orecchio che sappia ascoltare, perché il mondo è distante, un nemico che assedia e minaccia, e ci si trova là gettati, quasi per caso, per sentirsi inadeguati e incapaci di reagire. Se poi alle problematiche dell’adolescenza si aggiungono i segni di un dolore che ha marchiato l’infanzia, avvertito, lungo gli anni, come un peso, uno stigma indelebile, si può comprendere come allora la pagina bianca sia apparsa l’unico spazio, quasi fosse una grande diga, dove riversare, questa corrente caotica, tutto questo subbuglio di percezioni e stati d’animo. Ecco, dal bisogno di tradurre in parole le sensazioni acerbe che generavano le inquietudini di quel periodo, nascono i miei primi embrionali versi, informi scritture dalla forte valenza liberatoria, ai quali attribuire il nome di poesia è, a dir poco, azzardato e temerario, se non pretenzioso. Col tempo la scrittura, la scrittura poetica in particolare, è stata così la sfida al nichilismo, alla depressione, a quelle Erinni, quelle oscure malie, che tentavano la mia anima. La scrittura è divenuta dunque per me, il laboratorio di esplorazione, di conoscenza, aprendomi ad altri orizzonti, a uno sguardo altro su di me, sul mondo, sugli altri, a un diverso rapporto con la sofferenza e con l’esistenza dove ogni attimo può avere una sua pienezza, un suo significato e valore. Dedicandomi alla scrittura è stato come se avessi scoperto in me qualcosa di inatteso, potrei dire, un giardino ipogeo, come quello che vidi, anni fa, a Favignana, un vero giardino dell’impossibile, come è stato definito, costruito tra le cave dismesse di tufo (pirrere). Un mondo di sotto arcaico e misterioso e, al tempo stesso, d’impareggiabile suggestione. È stata la poesia così, piano piano, a fornirmi gli strumenti, la lingua essenziale, per dare visibilità e forma a tale dedalo sotterraneo.
Quali i poeti (e, più in generale, gli autori) significativi per la tua formazione?
I maestri sono stati tanti. Non si può scrivere poesia se non si hanno dei modelli cui fare riferimento e che rappresentano delle guide, dei fari sapienziali, per stili e contenuti. Ecco perché dietro la scrittura poetica è imprescindibile tanta, tantissima lettura di poesia. Difficile dire dei nomi, perché sono stati diversi nell’arco della mia vita; ma anche adesso, tra i contemporanei, trovo autori che ammiro e da cui ho molto da imparare, verso i quali mi avvicino con un atteggiamento di grande curiosità, di umiltà e stima. Per citarne alcuni tra gli Italiani, ad esempio Roberta Dapunt, Giovanna Rosadini, Giulia Perroni, Andrea Ponso. E poi ci sono i giganti, i nomi sempre eterni, le cui parole sfondano tutte le barriere temporali e spaziali. Emily Dickinson, Elizabeth Barrett, Marina Cvetaeva, Rose Ausländer. Molte dunque le donne ma anche uomini, altrettanto fondamentali, T.S. Eliot, Osip Mandel’stam, R.M.Rilke, e in Italia certamente Campana e Luzi. La loro poesia non smette mai di accompagnarmi. In essi trovo quel pane che alimenta la mia sensibilità. Riprenderli in mano ogni volta è una scoperta, una rivelazione, un nuovo sapore. Ma se devo, a questo punto, far cadere la scelta su un unico nome, senza indugio, direi, Margherita Guidacci. Lei è stata senz’altro quella che più ha segnato il mio percorso poetico. Mi sento a lei prossima, perché ha inteso la poesia come scavo interiore, come esercizio di catarsi. Per lei, la poesia ha la capacità di indagare sul mistero della morte, dell’angoscia e della depressione. Istanze senza dubbio sofferte e insopprimibili accanto alle quali la Guidacci affianca, con estremo lindore e afflato sincero, una certa fedeltà, una passione per la vita, come anche la gioia e la grazia. Col suo incedere poetico, dove ogni singola parola è depositaria e custode di significato profondo, davvero meriterebbe di essere riscoperta, letta per l’eleganza dello stile, per il suo andamento assorto e quieto che indugia nella riflessione e nella meditazione. Una profondità spirituale, che non tocca soltanto corde esistenziali, ma anche sollecitazioni etiche, di impegno civile.
Quale (e per quali ragioni) poeta e relativi i versi che non dovremmo mai dimenticare?
Di primo acchito mi risuona nella mente Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua, la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.
O Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende
Ma soprattutto il naufragar m’è dolce in questo mare. I versi di Leopardi hanno questa forza eterna e misteriosa che, credo, sia difficile trovare un altro verso che condensi tutta l’indicibilità del nostro smarrimento e nel contempo la bellezza che il pensiero dell’infinito prende noi, piccoli e inermi uomini. Ma per non restare nel troppo conosciuto, su quella stessa onda di abbandono e di sbigottimento mi trascinano i versi di Quasimodo:
Abbandoni d’alga:
mi cerco negli oscuri accordi
di profondi risvegli
su rive dense di cielo
Qual è – nell’arco della tua giornata – il momento ideale per dedicarti alla poesia (o, più genericamente, alla scrittura)?
I momenti della scrittura sono momenti di silenzio, di cura del sé, momenti ineguagliabili. È senz’altro il primo mattino l’ora in cui l’andamento della mano sul foglio trova il suo ambiente migliore. Quando, ancora con la mente chiusa in una dimensione di atemporalità, la realtà del giorno e delle cose non è ben distinguibile, le immagini, come fantasmi, appaiono e scompaiono, tra il buio e la luce, quando le palpebre sono abbassate a metà e contengono residui di sogni, lacerti di sensazioni ignote non sempre facilmente dicibili, né facilmente esprimibili. La mano, in quegli istanti, sembra avere una sua autonomia, sembra che obbedisca a un impulso tutto suo che la rende tutt’uno col foglio. A tale proposito, mi vengono in mente alcuni versi di Charlotte Brontë:
È l’intima tensione che può donarti solo
L’oscura stanza e l’ora deserta che t’invita
A pensieri sublimi – così ti levi in volo
Cercando un altro mondo, cercando un’altra vita
Ovviamente, con la mente più vigile, segue, nei giorni successivi, l’opera di ricomposizione e revisione affinché il testo abbia, alla fine, una sua configurazione e comunicabilità. Perché la sua stesura non può esaurirsi in quel getto talvolta frenetico e assai nebuloso.
Qual è la tua attuale ‘spiegazione/definizione’ di poesia?
Non si può racchiudere la poesia nei confini di una definizione, ne sortirebbe sempre comunque una specificazione riduttiva e incompleta. Perché ognuno ne dà la spiegazione in base alla propria visione, al proprio sentire emozionale. Ciò di cui, però, sono convinta è che essa non sia mai stasi, atto inerte e passivo.
La poesia piuttosto è movimento, un movimento pausato di sensi e di spirito: dapprima un sostare, un indugiare assorto sulle cose, e poi una ripresa del movimento. È cammino catartico: un adagio di moto inspiegabile che nasce dal nostro profondo e che, attraverso le zone buie della nostra interiorità, dove affollano memorie, visioni, vibrazioni, si spinge verso l’esterno per liberarle e fornire loro una qualche fisionomia. Una piega di ombra che lentamente si apre alla luce per farsi canto. Ma è anche cammino di scoperta: quando permette il contatto con le cose del mondo con un inedito e contemplativo sguardo sulla meraviglia di cui la Terra, la natura e l’universo intero, assieme alla nostra piccola e misera esistenza, sono il respiro, la carne, il disvelamento.
Quando una poesia può dirsi compiuta?
La scrittura poetica affonda le sue dita nell’attesa, nella lentezza; è un esercizio che necessita di tempi lunghi, di pazienza, di silenzi e solitudine. È un lavoro minuzioso e assiduo di ricerca, un fare e un disfare appassionato, come quello delle ricamatrici, che non si stancano di lavorare per giungere a una perfezione, a una fusione tra i vari elementi, il disegno, il tessuto, i fili, i punti, i colori, le tonalità, in un accordo armonico che incarni e rifletta il sentimento di chi vi ha lavorato.
Così nella poesia. I versi, con le loro parole e immagini, con le loro essenzialità e sfumature, con il ritmo e la loro sonorità, con le pause e i margini bianchi, diventano il riverbero del sentimento di chi li ha composti. Se poi la poesia crea, con l’eventuale ascoltatore o lettore, una sorta di dialogo muto, e suscita una risonanza nel suo intimo che fa sì che quel dato verso non appartenga più a chi lo ha scritto ma a chi, appunto leggendolo o ascoltandolo, lo fa suo, allora si potrà dire che essa è poesia, sincera poesia. Perché la poesia è compiuta solo quando diventa occasionale dono. È compiuta anche, quando finita la stesura, avverto un intimo appagamento ma subito dopo nascermi un’ansia: quel bisogno insaziabile di scrivere ancora.
La poesia può (e se può in che modo) restituire purezza alla parola?
Oggi si assiste, purtroppo, a un imbarbarimento, a un decadimento generale della lingua, implacabile riflesso della piattezza del nostro pensiero, dello svuotamento della nostra capacità riflessiva e critica. Gli esempi abbondano in tutti i settori e canali. Ecco, mi sembra che sia in corso una sorta di tradimento, nel senso di rinnegamento, oltre che di svilimento, di quanto la nostra storia letteraria e linguistica, con i suoi grandi autori, abbia prodotto e lasciato in eredità a noi. Io credo che il dire poetico, come la buona narrativa contemporanea, possa rappresentare un mezzo per rialzare le sorti della nostra bella e ricca lingua, per restituire dignità alla parola e vivificarne il respiro, purché quello sia il frutto di un accurato setaccio, di una consapevole distillazione. Forse a causa della mia “antiquata” formazione non mi piace – ma la mia è un’opinione puramente soggettiva – quella poesia, adesso molto in voga, la quale per attualizzarsi si avvicina al discorrere quotidiano, fatto di un vocabolario povero e di molte espressioni gergali, tanto che gli stessi contenuti rasentano la mediocrità, se non la volgarità. Cristina Campo scrive: la poesia non aiuta a vivere se non in virtù della pura bellezza. La bellezza di una poesia deve consistere in una eleganza, in una levatura formale e linguistica che abbia aderenza, una corrispondenza col suo profondo significato. Tale che in essa estetica ed etica possano convivere e combaciarsi. Sia pure col possibile rischio che venga tacciata di elitarismo.
Oggigiorno, qual è (ammesso ne abbia uno) l’incarico della poesia?
Assolutamente nessuno. Nella poesia è errato parlare di incarico, di utilità, di scopi. Perché essa non ha propositi, né funzioni specifiche (pratiche o ideologiche), non persegue obiettivi né significazioni di concetti o di principi, cerca, al più, una modalità di percezione del mondo e della vita, uno sguardo più attento verso le cose, l’umanità e il sé.
La poesia è cosa inutile, vana, come una bolla, una folata trasparente e fragile, come l’aria, e per questo necessaria perché in sé contiene due grandi valori, la leggerezza e la gratuità. Ecco perché non si può fare a meno della poesia, oggi più che mai.
Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo (di altri autori) nel quale all’occorrenza ami rifugiarti?
Lo sappiamo: non tutti i momenti sono uguali, ogni momento ha il suo timbro, il suo umore; ci sono momenti di indicibile tristezza, momenti di esaltante gioia, momenti di grande stupore, o di confusione. Quando mi trovo in una di queste condizioni, apro a caso un libro di poesia (spesso la scelta cade sui miei autori preferiti), facendo scivolare lo sguardo sulla pagina per incontrare una strofa, un verso; a quelli mi affido, quasi fosse un messaggio solo a me destinato. Sebbene il suo significato, lì per lì, potrebbe apparire oscuro, mi basta quel fremito scaturito forse dal ritmo o da un’immagine, quell’eco inconsueta, avvertita nel profondo, che mi invade e mi disarma, che non dà risposte ma acquieta un certo affanno, come se dissetasse un’aridità, colmasse un vuoto, un’attesa. A quella allora mi abbandono, da quella mi lascio trascinare, per trovarmi dimentica in quel fugace godimento.
L’ultima che mi è giunta e mi ha tenuto compagnia per qualche giorno è questa di Silvia Bre:
Un giorno scelse d’apparirmi.
Chi lo direbbe che a disegnarci vivi
basta un’ombra
il fuori che filtrava
chi direbbe che fu un capillare pulsante
a forma di ramo a rapirmi
in questa storia.
Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori a scegliere una tua poesia dal tuo libro “Innesti” e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.
Si tratta di una poesia scritta alcuni anni fa. A seguito di un periodo di sconfitte e delusioni che parevano non esaurirsi mai, ho avuto la consapevolezza di quanto la mia vita fosse, malgrado tutto, ricca di affetti, di incontri, di interessi, di piccole cose quotidiane, che le davano densità e colore. Ho voluto così manifestare il mio senso di gratitudine a tutto ciò che spesso trascuro per distrazione o perché troppo assorbita dall’amarezza.
Grazie per la slargatura dell’occhio
dentro al nocciolo, sulla grandine e la roccia
sulla torcia e il fumo. Per il setaccio di sillabe
farina buona da impastare se c’è fame
Grazie. Per la randa ora stracciata ora sgocciolante
e stesa al sole
Per ogni pezzetto di respiro che ancora è viaggio
e impara disimpara dalle vene a fuori. Grazie
Grazie per il pensiero che non dorme
e per l’ostinazione dei sogni
senza i quali linimento
non avrebbero le notti
Un ingombro d’ossa sarei
Ingombro di niente