Approda la poesia di Luigi Cannone alla forma chiusa dell’endecasillabo, un rigoroso endecasillabo che modella composizioni tendenzialmente brevi (senza tuttavia mai essere scarne) e sempre monostrofa, come se ogni pezzo fosse in sé la dichiarazione compiuta di uno stato raggiunto dell’anima, “il fermo d’una posa”, o “il punto fermo e impensabile”, per dirla con Luzi. “Ho il sospetto d’un luogo tra le cose / mentre durano i pensieri, le cime / dei monti e il caldo brucia e l’acqua corre. / Ho il sospetto d’una via sotto il sole / dove ronzano more a non finire. / Lì il tempo si ripete e i suoi dolori / alle spalle d’un qualcosa che muove.” Nonostante i titoli delle poesie siano al massimo concreti – nel senso di materialmente e visibilmente quotidiani (La persiana che si accosta, Il treno fermo sotto il sole, Queste le cose, tanto per citarne tre) – Cannone nella sua concretezza riesce a essere per certi versi “imprendibile”. Perché la sua è una concretezza spirituale, dunque invisibile. Una poesia che è sempre sulla soglia di qualcos’altro, sempre nei pressi di un altrove – interiore e solo per esperienza vero – che è sia punto di partenza sia desiderio continuo e méta, “il tempo/ d’un ultimo presente senza fine”, “nel travaglio d’un eterno ascoltare”; senza mire escatologiche, perché racconta una metafisica dell’io – morente, sì, ma cosciente di essere reale, e parte della realtà tutta: “Chi lo sa se a domandare silenzio / poi non osi qualche segno più vivo, / qualche Dio senza condizioni e senza / regno e quasi impercettibile al folto / andirivieni senza senso, il suono / di noi che moriamo e liquidi al vento. / Così mi guardo in fila tra la gente / e il tempo resta immoto mulinando.” Il campo di nessuno è campo dell’anima, terreno contendibile al caos con il silenzio, raggiungibile al prezzo di una dolorosa ascesi personale, dell’ascolto spirituale. Terreno lontano, difficile, eppure così lì: “in nessun dove […] ci sarà mai mondo se non in noi”, scriveva Rilke nella settima Elegia. “Per non vedere, non vedermi vivo / un frenetico mancare, l’inerme / andirivieni che mi sfugge, un volo, / labbra incerte, parole e graffi e notti / e notti trattenute in un abbraccio, / in un istante che si inchina ancora / come un gioco, come un eterno fuoco. / Nella stanza il ronzio di qualche mosca.” Uno spazio completamente interiore, “estremo/ sentire” che è coscienza – ipercoscienza – d’essere reale, “sapersi uomo” estremamente vivo in quell’altrove che “È dappertutto”. Coscienza che nel campo di nessuno rimane, di fase in fase dell’anima, “non inno di ringraziamento per il miracolo dell’accadere ma resa totale al mistero che si squaderna […] con tutto il suo carico di gioia e di dolore”, come ha scritto Sebastiano Aglieco a proposito di La resa, terz’ultima raccolta di Cannone. La ricerca introspettiva di questo nuovo libro non deve distrarre dalla realtà in cui è immersa ed essa stessa è parte, perché la realtà intorno – l’“anima” – è insieme causa e fine del viaggio. Viaggio, perché questa è una poesia in movimento: il poeta cammina per i platani dei viali attenta “al pigolio di qualche merlo”, va in gita per campagne con la moglie e i figli, siede in un ristorante tra le colline e l’autostrada, o al funerale di un amico sul Lago Maggiore; altre volte barcolla in fila tra la gente o tra le tombe di un cimitero: “Eppure una farfalla tra i sentieri, / nella carne gli strapiombi, l’umano / segreto divenire d’ogni morte”. Non è per Cannone la realtà della morte il vero volto del processo di coscienza-conoscenza di sé e della realtà? La morte che tutto intride, che tutto spiega e “si stende al suo colore cupo” in un “folle colare / d’ogni attimo al mondo”.
Luigi Cannone, Il campo di nessuno, Edizioni Contatti, Genova 2019, pp. 88, s.i.p.