“Il passo dell’obbedienza”. Laura Corraducci, “la poesia recupera il potere della parola che si fa cura insieme allo spazio bianco del verso”.

Con Il passo dell’obbedienza, Laura Corraducci ha scritto il suo libro più difficile e coraggioso: un libro nel quale ogni parola è un atto di speranza, un passo gettato oltre la linea di confine che separa un «canto rotto» dal «canto del cuore». E lo fa evocando figure imperfette, che hanno conosciuto il dolore di una perdita, o la grande tragedia della storia: figure su cui sovrasta l’immagine di Maria, che si affida alla volontà di Dio nel segno dell’umiltà e della dedizione. Indipendentemente dal loro esito terreno, queste figure si muovono verso il compimento di un disegno che è più forte di ogni violenza e di ogni strazio: così, la prigione che si chiude su Juana la Loca o il campo di sterminio dove trovò la morte Etty Hillesum si fanno simboli di un’obbedienza più alta, che riassume in sé l’idea di libertà e di destino. Così Giancarlo Pontiggia per “Il passo dell’obbedienza”, Moretti&Vitali (2020), di Laura Corraducci. Questi i versi che abbiamo scelto per per introdurre la nostra intervista, cerchiamo sempre il sale anche nei giorni/ di tempesta il sale che ci bruci gli occhi/ e le facce sollevate in alto ad inseguire/ le onde chiare che fa il vento con le vele/ su questo mare profondo solo un pomeriggio.

Qual è stata la scintilla che ha portato “Il passo dell’obbedienza”?

Intanto grazie dell’ospitalità e della curiosità alla poesia e al mio libro. Direi che non c’è una scintilla sola, ma un insieme di piccole scintille che poi hanno creato un fuoco, per rimanere in ambito di luce e calore, o almeno spero che si sia creato questo fuocherello, è diviso in varie sezioni come è stato per quello precedente, l’ultima ha il titolo del libro stesso ed è suddivisa in tre sequenze poetiche, tutte ispirate e dedicate a tre donne che hanno portato nella loro vita una profonda scintilla di libertà e amore, la Vergine Maria, Juana La Loca (Giovanna la Pazza) ed infine la danzatrice Simona Atzori nata senza le braccia. Il libro ha una gestazione di oltre cinque anni, un lavoro che si è via via formato nel tempo e che ha portato poi alla composizione finale.

Dove sei stata condotta dalla poesia e cosa credi possa la poesia per “i cuori inabissati nei fondali”?

Dove sono stata condotta non riesco a definirlo bene, non lo so esattamente, ci sono poesie che mi sembrano parlare e rivelare un messaggio dopo anni che le ho scritte e che, magari, erano nate da un’altra ragione rispetto a quella che ci trovo leggendole ora, è sempre un grande enigma, avere tutto chiaro forse è anche un inganno, è un modo per cercare di controllare, di fare prevalere noi stessi sull’arte, penso, invece, che su questo dovremmo fare un passo indietro e -come suggerisce la tua domanda- lasciarsi guidare, solo che durante il percorso non è facile, vorresti sapere, e invece devi fidarti, fermarti, ascoltare e andare, l’obbedienza per me è proprio questo ascolto profondo di una voce, della tua voce autentica, soffocata da mille altre. Se un cuore è inabissato nei fondali direi che è comunque nel punto ideale per essere ricettivo alla poesia, il dramma è quando il cuore rimane agganciato alla superficie e vive nel riflesso dell’io e dell’immagine, lì è sclerotizzato e molto meno permeabile alla poesia che, se vera, taglia via la maschera e punta al centro esatto del fondale.

In che modo la vita diventa linguaggio?

Quando è vera e autentica, se si sta male e si vive di maschere per paura, insicurezza, ferite emotive, il linguaggio è una delle prime abilità che si ammala, se viviamo un trauma non a caso “ammutoliamo” perdiamo, cioè, la parola, succede anche per una forte emozione in senso positivo, la poesia recupera il potere della parola che si fa cura insieme allo spazio bianco del verso, anche quello è linguaggio, lo spazio bianco del silenzio, un arco d’aria fra una parola e quella successiva, che si porge all’altro nella lettura orale e/o scritta senza realmente sapere che effetto produrrà, ma che avverrà, in chi la riceve.

La poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile?

La poesia ha e ha avuto mille definizioni, quella che proponi tu è suggestiva, certamente è la chiave che schiude porte che, forse, alla prosa non dico siano negate, ma svelate e aperte in modo diverso, la poesia è lingua dell’invalicabile se l’esperienza che pone, si apre all’universalità umana, non chiudendosi su se stessa o al dato semplice di cui si fa portatrice ma che, per quanto possa essere interessante o ben scritto, resterebbe un fatto limitato e legato ad un individuo e alla sua biografia, si innalza e innalza quando, invece, dice qualcosa di me mentre la leggo, quando si aggancia alla mia vita in un modo che nemmeno io sapevo o riuscivo a sentire, allora ri-vela, qualcosa ma, è davvero, qualcosa di nuovo? No, consegna uno sguardo nuovo, un sentire nuovo, non cambia niente intorno eppure cambia tutto perché l’occhio interno sa guardare in modo diverso. E’ un allenamento, una formazione vera e propria.

La forma quanto incide sulla “verità” della parola poetica?

Non lo so, si dice anche che la forma sia sostanza, io amo la sobrietà linguistica, un’essenzialità che non è scarnificazione ma significazione profonda della parola, penso si debba arrivare ad un punto dove la scissione fra forma e significato non occorra nemmeno più essere pensata, la poesia stessa, ripeto quando vera, armonizza tutto nel modo in cui deve essere.

Immagina di dover dare delle “istruzioni” essenziali per scrivere una poesia, quali daresti?

Leggi molto prima di scrivere, leggi e segnati i versi (dei poeti) che più ti colpiscono, credo sia anche importante leggere un poeta per intero, spesso questo avviene poco, si conosce Raboni, ad esempio, ma non si è letto tutto Raboni, non in modo enciclopedico, ma nella voglia di incontrare un poeta interamente, di farne la sua conoscenza in modo profondo e per farlo bisogna leggere.
Ascoltarsi poi, molto, che è un’arte difficilissima soprattutto in questa epoca, il silenzio e l’ascolto sono due pilastri dello scrivere e del vivere, curioso che in inglese le lettere di “Silent” e “Listen” siano le stesse, varino solo nell’accostamento. Uno spunto che fa riflettere.

La poesia è tale se diventa portatrice di una visione oltreché individuale sovraindividuale, qual è la sua opinione in merito?

Concordo pienamente e penso di averlo già spiegato, la biografia di Emily Dickinson è forse una delle più piatte biografie di poeti, non ha fatto nulla, non ha nemmeno viaggiato, è restata a casa per tutta la vita, nei suoi versi, però, ci ha portati con lei, ci siamo tutti nei suoi versi, l’amore, il rapporto con la Natura, con Dio, con la Morte. L’ha fatto con grande semplicità in una padronanza magistrale del verso, i grandi sono così, la loro arte è immensa proprio nella naturalezza in cui ci viene consegnata, ti ferisce e ti ricompone, ti rende intero. La poesia che parte da se stessa per tornare a se stessa è sterile, può anche avere successo che, come diceva spesso Battiato “è un inganno” ma, sostanzialmente, rimane limitata, non è trasversale nel tempo. E perisce.

Qual è stato, ad oggi, il dono più prezioso ricevuto in dono dalla poesia?

L’incontro dei morti e dei vivi, nella poesia ho incontrato anime di poeti che mi hanno parlato e ispirato, e l’incontro con le persone che hanno magari letto i miei versi e mi hanno suggerito prospettive a cui nemmeno avevo pensato.
La relazione è poesia, creare è un atto solipsistico ma sempre in virtù di una relazione a partire da quella con se stessi, di fondo, la più complessa.

Per concludere salutando i nostri lettori, ti invito a scegliere una tua poesia dal libro “Il passo dell’obbedienza” – (riportala gentilmente) – e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

posso svelarti il cammino che porti nei passi
ascoltare il respiro scendere nel ventre
e il sangue fartelo scivolare sulle gambe
la perfezione è catena ai polsi del servo
so volare nei tuoi occhi soltanto con un’ala

Questa è la poesia che più preferisco (almeno all’oggi perché non escludo potrebbe cambiare) del libro, è tratta dalla sezione “Poesie per la Venere senza braccia” dedicata alla danzatrice Simona Atzori nata, appunto, senza gli arti superiori, esprime l’orgoglio dello scarto, in una società che celebra il “bello” e il “perfetto” ad ogni costo pena l’esclusione dalla comunità. L’imperfezione fisica rivela altro, rivela un corpo spezzato, “venuto male” e, proprio per questo, bello nella sua individualità, imperfetto, ferito ma unico, abitato da un cuore, da un’anima che non si omologa né si sottomette, siamo tutti ubriachi e dipendenti dalle immagini artefatte di Facebook e social vari, tutti celebrities per schermi da 10 cm, Simona vola senza le braccia, solo con le gambe, ma il volo ha la spettacolarità di chi nel dolore ha trovato la sua voce autentica e, soprattutto, la libertà dalla prigionia dello sguardo senza il quale sembri diventare invisibile e dunque inesistente.

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Laura Corraducci è nata a Pesaro, dove risiede, nel 1974. Insegna inglese nella sua città, dove dal 2012, in collaborazione con l’assessorato alla Cultura, organizza ogni anno la rassegna poetica “Vaghe stelle dell’Orsa”. Ha esordito nel 2007 con Lux Renova (Edizione del Leone), cui ha fatto seguito nel 2015 Il Canto di Cecilia e altre poesie (Raffaelli).

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