Intervista alla poetessa Luigia Sorrentino

luigia sorrentino intervista di grazia calanna su l'EstroVerso

  

“La poesia deve rinnovare la tradizione perché così facendo mette in comunicazione culture diverse diventando fonte di apertura e di dialogo”

  

“Lei era lì / non era più la stessa / il volto sbiancato nell’intangibile / nulla più le apparteneva / si rivoltava in un’altra che l’offendeva / nell’involo mostruoso in lontananza / lei era un soffio chiuso / tutto era in sé pieno, attaccata / alle pareti, lei ormai radice”. Versi di Luigia Sorrentino, schiudono “Olimpia”, il nuovo volume edito da Interlinea Edizioni, “un libro orfico, interamente attraversato dal tema della salvezza”, scrive il prefatore Milo De Angelis. Un libro che “riporta in maniera sorprendente a modalità inattuali che possono disorientare un lettore ormai disabituato a territori così pregni di spiritualità”, aggiunge Mario Benedetti nella postfazione. Verso sfere inesplorate, “l’uno al cospetto dell’altro”, un viaggio, sovviene la Dickinson, “anche per il più povero, tanto semplice è la carrozza che trasporta l’anima umana”. Un viaggio, “in un tempo sospeso tra mente e cuore / mai la notte fu così stellata”.

Quali i ricordi legati alla tua prima poesia?

La prima poesia in assoluto, non c’è, non esiste, non è mai stata scritta. Nell’infanzia e nell’adolescenza era un grande sentire, percepire, scoprire. Tutti gli organi dei sensi erano coinvolti: vista, udito, olfatto, gusto, tatto. I primi scritti in una forma espressiva che  potevano richiamare la poesia, ricorrono già nei temi della quarta elementare. Ogni tanto c’era un guizzo, un’uscita inaspettata determinata da un particolare modo di “sentire” la realtà, come sai, difficile da descrivere. Una predisposizione all’arte io l’ho avvertita subito. Già nel mio primo diario, a dieci anni, lo annotavo: “Mi piace l’arte, voglio fare l’artista”. In quel periodo studiavo Danza Classica con Alba Buonandi, una delle quattro ballerine soliste del San Carlo di Napoli. Ero molto sensibile, vulnerabile, e lei lo sapeva perché mi conosceva da quando avevo quattro anni. Se mi diceva “Brava!” perché avevo eseguito bene un esercizio, un attimo dopo sbagliavo… e allora lei rincuorava, con una voce tenerissima: “Lo vedi che non posso dirtelo brava che ti emozioni?”. Mi ha insegnato il rigore, la disciplina ma anche la grazia del gesto, mi ha preparato all’espressione artistica. Nell’adolescenza la prima scrittura era scoordinata, insensata, era un grumo di silenzio, di cose non dette esplicitamente, e manifestava esplicitamente, un disagio generazionale e l’impossibilità di esprimerlo fino in fondo.

Quali i poeti dell’anima (per quali ragioni, con quali legami) e, più in generale, quali le letture significative per la tua formazione?

Tra le letture significative e formative ricordo, innanzitutto, la filosofia. Mi avvicinai giovanissima alle opere di Aristotele, Kierkegaard, Schopenhauer e Nietzsche invogliata dal mio professore di Filosofia del liceo, Massimo Leotta, che mi dava voti molto alti alle interrogazioni. Il professore di Italiano, Biagio Scognamiglio, è stato, invece, il primo a leggere i miei versi. Mi incoraggiò a studiare le poesie di autori noti, regalandomi un libro di poesie di Giovanni Mazza [ ndr. un poeta italiano nato a Torre del Greco alla fine dell’Ottocento] e offrendomi in prestito un libro di Dylan Thomas. Avrei dovuto restituirglielo, ma non ci siamo mai più rivisti. La scuola mi ha fatto incontrare i grandi poeti del passato: Petrarca, Dante, Leopardi, ma anche i classici, latini e greci.  Il primo poeta che ho amato in epoca scolastica, è stato Montale. Più tardi Dino Campana, Cesare Pavese, Byron letto da Carmelo Bene. Quando feci la selezione finale a Roma con Vittorio Gassman per entrare ne “La Bottega” di Firenze, dopo aver superato tre provini precedenti, lui mi chiese di leggergli una mia poesia: gli lessi “C’è un padre”, una poesia contenuta nella raccolta pubblicata nel 2003, circa 18 anni dopo. Lui disse: “Bene, brava. Poi scandì il nome che mi aveva attribuito: “Par-te-no-pea!”. In quegli anni, avevo terminato l’università laureandomi in Giurisprudenza. Iniziavo a scrivere i primissimi versi, leggevo Sylvia Plath, Marina Cvetaeva, la Yourcenar, e naturalmente, Emily Dickinson. Ho amato profondamente gli esistenzialisti francesi, Sartre e Simone de Beauvoir, Camus, Lacan, Musil, André Breton, Shakespeare, Sofocle, tutti i poeti e gli scrittori russi, fino a Brodskij. La consacrazione alla poesia è arrivata quando ho conosciuto Milo De Angelis. Scrissi in quegli anni, la metà degli Ottanta, le poesie contenute in “C’è un padre” che considero, pertanto, un libro di poesie giovanili. All’epoca mi rifiutai di pubblicarle nonostante De Angelis mi invogliasse a farlo. Non mi sentivo sufficientemente sicura, ero intimorita dalla precarietà in cui vivevano i poeti che avevo conosciuto, uno di questi era Valentino Zeichen. È evidente che non ero ancora strutturata per affrontare “l’agonismo” necessario a chi vuole scrivere versi. Molto importanti per la mia formazione sono stati i luoghi. Tutti i luoghi nei quali ho vissuto parte della mia esperienza.

Due poesie – una tua, una di altri –  alle quali sei più affezionata?

“Lo slancio della rosa”, è una delle mie poesie preferite,  e “Voce giunta con le folaghe”, di Eugenio Montale. Entrambe trasferiscono al lettore l’ineluttabilità della morte e la sacralità dei luoghi nei quali ci si è trovati, ritrovati.

Ti senti poeta? Fosse sì, sapresti descriverlo questo “sentire”?

Non spetta a me definirmi poeta. Mi sento vicina alla poesia e so che il percorso da compiere è lungo.  Per me scrivere è una risposta a una domanda imperativa che tende al nucleo di una poetica. Il dubbio – sono o non sono poeta – non me lo pongo. Spesso mi chiedo: “Come deve scrivere un poeta? Qual è la funzione della poesia nella società civile?”. Credo che le risposte siano nel percorso di un’intera esistenza.

Poetessa e giornalista (ricordiamo che curi con incessante affermazione il primo blog di Poesia della Rai “Poesia, di Luigia Sorrentino”,  per Rai News 24), impegnata con prodigalità e contagioso entusiasmo sul  vasto fronte  della poesia. Ci racconti com’è nata questa passione, come si alimenta e quali, tra gli innumerevoli ricordi, gli aneddoti e i personaggi indelebili (ai quali tanto hai dato e dai quali, altrettanto, hai ricevuto)?

Il blog è un riferimento costante per la comunità di persone che ruota intorno al mondo della poesia. Nel blog sono passati i nomi e i volti dei più importanti poeti italiani viventi, e non solo, anche molti poeti e scrittori noti in altri paesi del mondo, e qui cito soltanto alcuni:  Orhan Pamuk, Derek Walcott, Julia Hartwig, Yves Bonnefoy, Mark Strand, Adam Zagajewski, Susan Stewart, Adonis, Clara Janés, Titos Patrikios, Ewa Lipska, Seamus Heaney, Erri De Luca, Emanuele Severino e, ultimamente, Yang Lian. Tutti mi hanno dato qualcosa di diverso e particolare. Mi soffermo su Strand, persona generosissima oltre che vero poeta, che può essere paragonato solo a un altro grande per genere: John Ashbery. Per un’intervista, Mark Strand si è lasciato portare in una primavera di qualche anno fa, in un campo di girasoli in Umbria. E da lì, da quello scenario insolito e “inaspettato”, ho vissuto sulla mia pelle e insieme a lui, l’esperienza di straniamento che suscita la sua poesia: cosa ci fa Mark Strand in un campo di girasoli a declamare versi? È “strano”, “inaspettato”… non me lo aspettavo da lui, e invece è avvenuto, come ciò che accade nella sua poesia che lui stesso definisce a volte “comica”.
L’arte in genere, e la poesia in particolare, presuppongono sempre il «tu». Sono, per così dire, declinate al vocativo. La parola poetica chiama, ad-voca, ma a che cosa essa chiami non è chiaro, e ancora meno chiaro è come si risponda alla chiamata. Un pensiero di Franco Rella per chiederti una riflessione su questa “materia” complessa (e inesauribile).

La poesia chiama da una cavità profonda, sotterranea, a volte oscura, come accade nella prima sezione di Olimpia, “L’antro”. La “chiamata” però, per me, non è sempre un vocativo: un “tu”, ma è anche un dativo: “a te”. Altre volte la voce arriva con un verbo coniugato al passato remoto: “cadde”. Oppure all’imperfetto: “sprigionava”, al gerundio: “essendo”, o al futuro semplice: “sarai”. È vero quello che dici, non è chiaro da dove provenga esattamente e dove ci condurrà questa voce che chiede la parola, non sappiamo mai nemmeno se tornerà di nuovo a parlarci. Dobbiamo saper aspettare perché ritorna sempre. E quando si fa viva, bisogna essere pronti ad accoglierla, per cercare altre risposte,  e, come diceva Wislawa Szymborska,  per porre nuove domande, complesse e inesauribili.

Le parole si muovono, la musica si muove / solo nel tempo; ma ciò che soltanto vive può soltanto morire. / Le parole, dopo il discorso giungono al silenzio. […] Le parole si tendono si lacerano / e talora si spezzano sotto il peso, / sotto la tensione incespicano scivolano muoiono / imputridiscono per imprecisione / non vogliono stare al loro posto / non vogliono restare ferme. Con T.S. Eliot per domandarti: oggigiorno quale dovrebbe essere la funzione della parola e in che modo potremmo (o dovremmo) muoverci (tra tutte le difficoltà che conosciamo) per preservare il valore autentico della cultura?

Se vogliamo preservare il valore autentico della “cultura” dobbiamo innanzitutto convenire che questa parola, soprattutto qui in Italia, ha perso di significato. Per tornare all’origine della parola “cultura” dovremmo tornare “a coltivare il culto” e il bagaglio di conoscenza che esso trasmette. Eliot nei “Quattro Quartetti” che hai citato, fa proprio questo: recupera “il culto” della parola della poesia. I Quartetti furono pubblicati separatamente e in anni diversi. Il primo, quello a cui fai riferimento, nel 1936, gli altri dal 1940 uno l’anno, fino al 1942, ma compongono, come molti hanno scritto, un solo poema. La prima cosa che colpisce di questa opera complessa, è il tempo musicale che la determina, un tempo che sentiamo molto leggendo nella lingua originale, l’inglese, veniamo letteralmente scossi dalla musica, come se ci trovassimo di fronte a una partitura musicale di Beethoven. La Seconda Guerra Mondiale è alle porte e il poeta sente la necessità di affermare totalmente la libertà dell’espressione artistica fuori dall’irregimentazione e la chiusura di ogni nazionalismo. Eliot nei Quartetti propone un metodo educativo che cerca un equilibrio estetico, etico e religioso, attraverso la musica dei versi, la metrica. “L’arte vince il tempo, la religione lo trascende”, scriverà. Eliot sperimenta e comprende che la poesia può realizzarsi con un ritmo particolare prima ancora di trovare la sua espressione di parola. Egli sa che si può comunicare la poesia prima ancora che essa venga capita. E quando il discorso è finito, le parole giungono al silenzio. Credo che l’obiettivo di ogni poeta debba essere quello di salvaguardare mediante la lingua della poesia, la cultura di tutti i popoli, anche delle minoranze. La poesia deve rinnovare la tradizione perché così facendo mette in comunicazione culture diverse diventando fonte di apertura e di dialogo. Eliot scriverà in uno dei suoi saggi nel 1939:  “In una lingua come la nostra, dove tante parole derivano da altre lingue, uno dei metodi educativi e più utili e anche più divertenti consiste nell’abituare i giovani a ricercare l’etimologia, o il significato originario, delle parole che si adoperano”.  L’operazione che compie Eliot nei Quartetti ha davvero qualcosa di straordinario se si pensa al “collage” di significati e significanti che mette insieme, riportando al presente, il passato, ma anche il futuro. Un fenomeno culturale che rinnova il “culto”, lo “aggiorna”, e trascina il lettore alla frontiera di una nuova  coscienza. Il grande poeta inglese, premio Nobel per la letteratura, con i “Quattro Quartetti” riconosce e afferma che la poesia porta con sé un bagaglio immenso di tradizione e il sentimento religioso che si relaziona con il divino e con il sacro, è la musica”.

Torniamo al tuo nuovo libro: “Olimpia”. Perché questo titolo?

olimpia di luigia sorrentino su l'EstroVerso intervista di grazia calanna (2)Olimpia è l’incontro con la poesia. Nel libro l’ultimo verso:  “Olimpia, gioia di esseri non esperti di gioia!”, allude  a un tempo passato, (Olimpia fu una delle prime città greche e gli abitanti erano felici di vivere nella loro città, che era un piccolo Stato, a dimensione umana), ma anche a un tempo futuro e quindi, porta nel presente, al sentimento che dovremmo vivere oggi abitando le nostre città. Olimpia, quindi, è il nome di una città, antica e nuova, ma è anche il nome di un essere femminile, una grande madre, che racchiude in sé tutto il tempo. Leggendo Olimpia si compie un viaggio all’origine della vita, ma anche della morte. Si entra in uno spazio religioso, in cui il divino e il sacro sono aspetti dell’umano, non soltanto della divinità. Si comincia da un antro, poi si cammina fuori, ma non si ha alcuna idea di che cosa avverrà all’esterno. Si resterà abbagliati dalla luce bianca di una città, in lontananza, verso la quale i nostri passi si dirigeranno? O forse sarà la città a venire verso noi? Di sicuro inizieremo questo percorso con una nuova consapevolezza che ci metterà al riparo dalla sorte alla quale l’umano è destinato”.

“[…] all’ampiezza / offriamo il soffio qui adagiato / la bellezza che ci fu tolta / nella luce inesorabile / dello spegnersi”.  Con i tuoi versi, transiti ricolmi di tensione esistenziale, per chiederti: la poesia è (e se lo è, in che modo) l’officinale del vivere?

La poesia è l’officina, il laboratorio del transito, pertanto, è anche medicamento, cura e lenisce le ferite della vita. È certamente vero anche il suo opposto, ti può gettare in faccia l’indicibile. “Olimpia mette il lettore di fronte a delle verità in qualche maniera indicibili, ma lenisce anche le ferite. La voce della donna è materna, abbraccia l’umano, non lo abbandona, e lo conduce nello “spirito del futuro”, nell’accettazione della propria condizione. “È un libro dal quale si esce cambiati”, molti lettori hanno scritto questo e mi ha fatto piacere. In Olimpia è presente la dimensione del transito, dell’attraversamento della soglia, che è anche un ostacolo che si deve superare, trasferendosi da una dimensione all’altra, dal terreno all’ultraterreno, dall’essere, al non essere più. In questo senso credo che chiunque legga questo libro, si senta posto costantemente davanti a un limite oppure su una soglia sulla quale rimanere in bilico. In Olimpia vi è una lontananza dalle cose materiali che non appartiene più all’ambito soggettivo. Ci si trova in uno spazio e in un tempo assoluto dove tutto è già accaduto. Olimpia è il ritorno sulle rovine di una civiltà, nelle quali riconosciamo soltanto i frammenti del nostro passaggio.

Ti invito a scegliere, riportandola, una tua poesia per salutare i nostri lettori.

“La poesia che scelgo è tratta dall’ultima sezione: “Giovane monte in mezzo all’ignoto”. In queste ultime parole c’è un margine di speranza e di gioia. Tutto si è compiuto, si è placato, e si è pronti al ritorno”.

tutta la nostra attesa era
in una madre che ritorna
nel regno dei vivi e dei morti
frantumato dinnanzi a lei
 
tutto si era placato fra i tronchi
dei lecci
senza steli stavamo sulla spianata
trasportati qui dove si tace di gioia,
tace su tutto chi possiede
quello spirito del futuro
sopra le rovine
 
 
 

Luigia Sorrentino è nata a Napoli. Vive a Roma e lavora alla RAI. Giornalista professionista, ha collaborato per le pagine culturali di diversi quotidiani. Ha ideato e condotto programmi culturali per la Radio e la Televisione Italiana, con interviste a scrittori, poeti, narratori e artisti di fama internazionale. Dirige il primo blog della RAI dedicato alla Poesia, all’Arte, alla Letteratura (http://poesia.blog.rainews.it/) sul sito di Rai News. Ha pubblicato le raccolte poetiche C’è un padre (Manni, 2003), La cattedrale (Il ragazzo innocuo, 2008), la silloge L’asse del cuore («Almanacco dello specchio» Mondadori, 2008), La nascita, solo la nascita (Manni, 2009), Olimpia (Interlinea, 2013). In occasione dello Jerash Festival International (Amman, 2004) sue poesie sono state tradotte in arabo e pubblicate su riviste di lingua araba, traduzioni di Fawzi Al Duhleimi. “The Cathedral” è stata tradotta in inglese nel 2009 da Antony Molino. È presente nell’antologia “Venters” Twetalige bloemlezing Italiaanse dichteressen, 1965-2012, Ed. Istituto Italiano di Cultura,  Amsterdam, 2013,  Antologia della poesia femminile italiana, a cura di Gandolfo Cascio, traduzioni di Carolien Stenbergen. “Two Poems” by Luigia Sorrentino sono uscite in “The Paris Review” n. 206, (New York, settembre, 2013) traduzione di Gray Sutherland. “Olimpia” è stata integralmente tradotta in francese da Angèle Paoli. Sul sito “Terres de Femmes” (http://terresdefemmes.blogs.com/mon_weblog/2014/02/luigia-sorrentino-iperione-la-caduta.html) si può leggere un’anticipazione della traduzione in francese del poemetto “Iperione, la caduta| Hyperion, la Chut (febbraio, 2014).

 

 

Potrebbero interessarti

Una risposta

  1. Pingback: arturo