La morte è la ratifica di tutto
ciò che sa riferire chi narra.
Walter Benjamin

 

Il 6 giugno 1944, subito dopo la cacciata dei tedeschi da Roma, Joyce Salvadori ed Emilio Lussu si sposarono civilmente per poter riconoscere entrambi il figlio che sarebbe nato di lì a poco[1]. In settembre Joyce è per la prima volta in Sardegna, dove percorre a cavallo la zona del Gerrei subendone un impatto analogo a quello descritto giusto un anno dopo da Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli.

Ritorna in Sardegna da sola nel luglio del 1945 per conto della costituenda Unione Donne Italiane; al rientro scrive un racconto che trova ospitalità l’8 dicembre 1946 nel quotidiano del Partito d’Azione “L’Italia Libera”, della cui edizione romana è direttore lo stesso Levi.

Sfuggito alle numerose bibliografie comparse finora, il racconto venne ripreso con qualche variazione a inizio 1949 nel primo fascicolo del semestrale “Botteghe Oscure”, e così rimaneggiato il 25 luglio successivo nel settimanale “Noi Donne”, organo dell’UDI[2].

Qui sotto la versione originale, desumibile in controluce dalle parentesi quadre[3].

* * *

LA BAMBINA

Quando nacque furono tutti contenti, perché era una femmina, mentre gli altri cinque erano tutti maschi, e anche i tre morti. Certo sei figli da allevare sono tanti, e ogni volta che ne veniva uno Antonia sperava che fosse l’ultimo, invece ogni anno si ritrovava incinta, ma d’altra parte è la Provvidenza che li manda e bisogna accettarli con rassegnazione, e quando l’anno prima, dopo un parto molto difficile, il medico aveva proposto di operarla dicendo che la prossima volta sarebbe morta quasi certamente, e lei s’era andata a confessare su questo fatto, don Gesumino l’aveva rimproverata perché è peccato rifiutare i figli che manda la Provvidenza, e aveva citato un verso che dice [che il]: “Il Signore, gli uccellini dei nidi li nutre e non li lascia morir di fame”. Così Antonia quando s’era trovata incinta un’altra volta s’era rassegnata, come si fa quando grandina o un bove cade in un precipizio.

Il parto era stato difficile, tre giorni fra la vita e la morte, ma s’eran salvate tutte e due, e in fondo ora era contenta che fosse una bambina, perché le bambine son sempre una consolazione per la mamma, ed era anche molto carina, con un visettino largo e bianco e gli occhi neri e larghi, e Antonia se la coccolava con la stessa [dolcezza] grazia con cui s’era coccolato il primogenito tanti anni addietro, come se avesse dimenticato tutti i dolori e le fatiche che danno i figli. E ritrovava il suo sorriso di sposa, quando se la teneva al petto e la chiamava la sua stella del mattino, il suo marengo d’oro, la più bella di tutto il mondo.

Anche Egidio era contento, e quando tornava a casa stanco morto per essere stato a zappare il campo ch’era a un’ora e mezzo di cammino, di là dal torrente, quando tornava a casa e vedeva quel sorriso dolce sul viso di Antonia che stringeva in braccio la bambina, si ricordava di quando le aveva parlato la prima volta, di quando andava [con] tra le compagne con le lunghe canne a raccogliere i fichi d’India, e buttava indietro la testa pesante di trecce nere guardando dritto davanti a sé ed era rigogliosa e piena come un melograno che sta per scoppiare; mentre ora era vizza come una mela d’inverno e i capelli eran radi e aveva anche perduto i denti. Ma per la bambina ritrovava il sorriso [di] d’allora, come se nella vita ci fosse ancora qualche incantevole mistero e non solo lo squallore della cucina sporca e i maschietti che gridavano e si facevano male, e gli stracci da rappezzare quando anche il filo era così caro che non si sapeva come fare a comperarlo, e nel letto senza lenzuola con una sola coperta unta e logora, il puzzo della terzana, che in quell’epoca prendeva sempre Egidio e tutti i fratellini smunti e panciuti, dai visini aguzzi e gli occhi grandi cerchiati di febbre.

Anche la bambina prese la febbre e anche lei ebbe il visino aguzzo e gli occhi cerchiati e piagnucolava sommessamente. Era una bambina molto buona, che non gridava mai; e nemmeno le venivano lagrime, negli occhi asciutti e spalancati, che parevano capire tutto. E quando la febbre andò via [pareva] sembrava che si rimettesse, e invece le venne l’enterite, e non digeriva più nemmeno il latte della mamma, [che] la quale era anche lei così deperita, che invece del latte doveva averci l’acqua.

Il medico venne a visitarla e uscendo andò a confidarsi con Don Gesumino, e disse che gli straziava il cuore, che cosa andava a farci lui da quella povera gente, la vera malattia era la fame, finché eran così denutriti pareva persino una beffa, andare a [fare] scrivere delle ricette e a ordinare delle diete. E Don Gesumino giunse le mani e disse, siamo tutti poveri in paese, signor dottore, che miseria, che miseria, il Signore [ci] ha voluto punirci[e] per i nostri peccati, ma poi la sera ci ripensò su e disse alla serva di tirare il collo a una delle galline che non facevan più uova e di portarla ad Antonia per fare il brodo per lei e [per] la bambina. E Antonia quando vide la gallina si mise a piangere, e prese su la bambina e la baciava dicendo che la Vergine non l’aveva abbandonata, perché in quei giorni mancava anche il pane, la secca aveva distrutto il raccolto e non avevan rifatto neanche la sementa. Ma quando il brodo fu pronto, e i cinque maschietti si misero a guardar la pentola con gli occhi luccicanti, non ebbe il coraggio di mandarne giù nemmeno un cucchiaio, e disse [che] ch’era tutto per la bambina, perché aveva l’enterite e doveva guarire.

Ma in fondo al cuore lo sapeva, che non sarebbe guarita, anche gli altri tre erano morti così gli anni avanti[, anche gli altri tre avevano avuto quel velo opaco sulle guance e quello sguardo grave e quelle manine pietosamente inerti, anche gli altri tre avevano avuto l’enterite ed erano morti]. E col cucchiai[n]o le versava in bocca il brodo ma senza convinzione, e poi la rimetteva giù nel mezzo del letto sotto la coperta che dava cattivo odore ma che non si poteva lavare perché non c’era che quella, e la bambina la fissava con i suoi occhi asciutti da sotto la cuffietta impregnata di sudore, e ad Antonia non bastava più il cuore, per sorridere e chiamarla la sua stella del mattino. E ripeteva a mezza voce[: “M], muore anche questa[. A], anche questa mi muore[”], irresistibilmente, con una strana angoscia che sembrava un rimorso, come se la colpa fosse stata sua.

E Egidio non poté rimaner la notte, perché l’uva era ormai matura, e se non fosse andato a far di guardia al suo pezzetto di vigna gli avrebbero portato via tutto. E disse ad Antonia che facesse in modo di portar la piccola al cimitero di pomeriggio, perché ci voleva venire anche lui e la mattina doveva lavorare e non poteva assolutamente. E si chinò a baciare la bambina che lo guardava con gli occhi spalancati e le labbra strette e le guancine gialle e tirate che oramai si capiva che se ne stava andando. Infatti spirò quando cominciava a far giorno, e Don Gesumino venne e disse tante cose ad Antonia che come un automa girava attorno al fuoco per preparare la minestra ai maschietti, disse che siamo pieni di peccati e che dobbiamo accogliere il dolore con rassegnazione, e che un angioletto bianco come la neve se n’era [volato] andato in Paradiso e che altri angioletti bianchi come la neve [di]scendevano sulla terra. E accorgendosi, come si mise in controluce sulla porta, che Antonia era di nuovo incinta, le batté la mano sulla spalla con un sorriso, e citò dei versi, dove si diceva che la Provvidenza Divina non abbandona mai i buoni e gli onesti.

 

[1] Un paio d’anni prima Joyce, braccata dall’Ovra e dalla Gestapo, dovette affrontare un aborto clandestino di cui in Padre Padrone Padreterno, Mazzotta, Milano 1976, scrive: “Il fatto di dover rinunziare a un figlio (anzi a una figlia: mi ero fissata che sarebbe stata una femmina) […] mi fece piombare in una disperazione mai conosciuta prima. Stavo immobile al buio, nel sangue dell’orrenda ferita, rifiutando di muovermi, di parlare, di mangiare; volevo distruggermi, insieme alla mia figlia mai nata”.

[2] Dove uscirà il 5 febbraio 1950 Donne spaccapietre, testo limitrofo al nostro, cfr. J. Lussu, Con Emilio, Per la Sardegna nella storia di tutti, a cura di G. Caboni, CUEC, Cagliari 2013.

[3][3] Dedico questo lavoretto filologico fatto amore ac studio (più col primo che col secondo) a Silvia Ballestra, che quarant’anni fa attraverso Joyce L. Una vita contro me l’ha fatta conoscere, e a mia madre Anita, che qui dal minuto 4’54” in qualche modo con lei consuona.

 

 

In copertina Piero Guccione, Il volo del pettirosso, 1987, pastello su carta.

Potrebbero interessarti