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Gabriel Garcia Márquez, idea grafica di Nino Federico



Il 17 aprile dell’anno in corso, ogni vocio di uccello che gode festoso delle molliche attorno al mio Antro, si è ammalato. Me ne sono resa conto dal silenzio delle loro mandibole. Ho raggiunto la porta, li ho visti, seduti per terra, il cranietto nascosto sotto l’ala. Le molliche intatte. Un cuore femmina tra loro ha battuto, Sarò sterile da oggi.

Le pizie non impiegano molto tempo a comprendere un dolore. Ancora meno a decidere quando vale la pena prestargli onore. Certe pizie, quando un quadro limpido si delinea nella loro testa, qualche volta provano a pasticciare il disegno, a sovrapporlo con altre immagini. Nessuna tra loro è infallibile quando cerca sollievo nel cinismo. Non ne sono stata capace io.
Il cane azzurro con gli occhi di Colombia è apparso e mi ha guardata. Una lacrima mi è caduta sul suo manto. Ho detto al cane, Entra.
Non ho chiuso l’uscio.
Ho notato subito il mio pappagallo sul trespolo, soprattutto gli ho udito la malinconia a lui non consona. Le sue piume multicolori di sudamerica erano sul pavimento. Lui, nudo, teneva gli occhi serrati come se nulla valesse più la pena di essere visto.
Ho occupato una sedia qualunque. Il cane azzurro ha poggiato il muso sui miei piedi. Glieli ho guardati, quegli occhi cantati da Gabo in una delle sue storie più brevi. Il giusto da dire, per uno scrittore amante dello sbocciare di mille situazioni. Occhi di cane azzurro è un minuscolo arazzo dove tutto appare compiuto. Sono certa che Gabriel Garcia Márquez fosse tristissimo quando scrisse dell’uomo che al risveglio non ricorda i sogni. E della donna che, purtroppo, sì.
17 aprile. Le zagare iniziano a sbocciare. Mi alzo e compio un gesto a me non gradito: pulisco l’Antro. Spolvero, ramazzo, sollevo oggetti piegati sui propri fianchi. Raccolgo frammenti di inutilità che in qualche mio attimo di collera ho scaraventato contro un muro. Orno sedie, poltrone, sgabelli, appendiabiti, tavoli con cuscini d’ogni foggia e colore. Prego il pappagallo di richiamare verso di sé il piumaggio, Per favore…per favore sii forte.
Mi accuccio per terra. Che si lasci piangere la Pizia.
Il primo ad entrare è stato un Aureliano Buendia. Ha preso posto sulla poltrona accanto alla finestra. Dietro di lui, come petali al vento di primavera, Ursula, Erendira, Il Colonnello, Il Patriarca, Una Pioggia, Una Triste, Una Luna, Un Singhiozzo, Una Chioma Bionda e mille altri e altre, e cose e deliri e sbagli. Ciascuno ha preso posto. L’Antro è diventato un caleidoscopio.
Poi è entrato Gabo.
Si è chinato accanto a me. Mi ha detto, Ti sembriamo dei morti? Adesso si ricomincia. Adesso baceremo il cane azzurro.
Adesso si ricomincia.

S.D.M.

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