S’intitola “Stanze della luce”, è il nuovo libro di Giuseppe Carracchia (nella foto di Emanuele Savasta), pubblicato da “Moretti&Vitali”. In esergo, con Camus, “Conosco un solo dovere, ed è quello di amare”, l’autore ci dice apertamente quale strada imboccheremo attraversando i suoi lucidi versi. Tre sezioni (“Camera oscura”, “Riparando le palpebre”, “Estate”) per un volume che, conveniamo, fa pensare al “modello dantesco”, e che, come osserva Fabio Pusterla nella prefazione, è anche “viaggio esistenziale, con le sue brave tappe di disperazione e speranza, di assenza e presenza; ma soprattutto un viaggio dentro la parola e le sue molte possibili modulazioni”. È profondo sentire quello di Carracchia, «toccato dalla luce delle cose, esposto». Volontà e desiderio («‘Essere nient’altro che felici è tutto’») combaciano nell’idea che persiste sin dagli albori della sua scrittura («dando fuoco di colpo al non detto»): dalle fratture, ai dolori «inequivocabili», alle «parole d’impaccio», alla «ricongiunta chiarezza», alla «sacrosanta presenza», alla «purezza di qualche gesto», alla commozione, al «Saremo giudicati sull’amore», al «tempo della disperazione» come alla sua capacità risolutiva, all’essere perfetti «nell’errore», all’ardore di un corpo tutt’anima, alla «libera aggregazione delle stelle», agli «occhi dell’incanto», al «Fatto di luce che emerge dal nero».
Qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “Stanze della luce”?
Nella prosa che accompagna il libro, intitolata ‘La partitura dell’azzurro’, ho già tentato di delineare – in modo più o meno indiretto – il viaggio attorno al quale è cresciuto Stanze della luce. Evitando di ripetermi, proverò ad aggiungere qualcosa portando il discorso su un piano diverso. Se parlo di viaggio non è per un capriccio stilistico né per una posa biografica, come sottolinea anche Fabio Pusterla nella sua prefazione, definendolo «viaggio tripartito», certamente non solo per via della suddivisione del libro in tre sezioni. Questa tripartizione, ben oltre il dato oggettivo, immagino abbia a che fare – in un’autoanalisi che provo a sviluppare – con quelli che a posteriori potrei definire i tre tempi del libro, la cui comprensione (o il cui scioglimento) riguarda senz’altro la scintilla della tua domanda. Il primo nucleo di testi, covati nell’assenza e nel buio della ‘camera oscura’ (titolo di una delle sezioni del libro), è letteralmente esploso in un arco temporale molto breve (qualche giorno), poco dopo la pubblicazione di Prova del nove, alla fine del 2015. Sono testi (per buona parte rimasti inediti fino all’uscita del libro) che ho da subito trattato come incandescenti, non per un valore intrinseco (che pure spero abbiano) ma per una certa dose di angoscia e di cattiva coscienza che mi pareva si portassero dietro e che ho cercato in tutti i modi e alternativamente di comprendere, attraversare, reprimere, mascherare o addomesticare. Testi che nonostante tutto non mi sembravano all’altezza di ciò che desideravo, e non in riferimento ad un desiderio di natura estetica ma ad un rifiuto di riconoscermi in essi e di aderirvi. Così, non aderendovi mi sembra di aver fatto spazio alle nuove forme che la vita ha preso e al viaggio, fisico, reale tanto quanto metaforico ed affettivo, che da lì ha iniziato ad aver luogo e che continua. I testi che appartengono agli anni successivi (2016-2019), anni di attraversamenti geografici e mappature emotive, anch’essi perlopiù inediti all’uscita del libro, portano il vento di una luce mediterranea alla quale aderisco e che vivo come un orizzonte etico. Sono testi che hanno preso forma nel silenzio di un tempo lungo e meravigliosamente distratto dalla vita, con tutta la carica anfibologica che questa frase porta in sé. Scrivendoli, mi ribellavo – più o meno consciamente – all’esplosione statica che aveva dato inizio a quel viaggio, e l’atto performativo più emblematico (e severo) di quella ribellione era – ed è – la pienezza della vita stessa e del viaggiarla. Colmi di incertezza e di inquietudini, ma vivi, esistenti fuori dal cerchio corrotto dello stantio. Luce non vuol dire pace, vuol dire luce, al di là di ogni cattiva coscienza, ed è già tanto. Il terzo tempo del viaggio di queste Stanze è iniziato nel 2020, quando per altre (ovvie) ragioni la qualità del viaggiare è ridivenuta granitica. Già negli anni precedenti la scrittura in versi si era fatta via via sempre più rara, lasciando spazio al desiderio di altre scritture, altre forme, che oggi premono. Così, nell’inoccupazione forzata di quei mesi, preso da altro non mi sembrava né sentivo – in tutta onestà – di coltivare un libro e se ogni tanto, raramente, mi capitava di riaprire la cartella contenente quei testi (in origine intitolata Riparando le palpebre, poi divenuto il titolo di una sezione del libro), restavo in qualche modo amareggiato, senza comprenderne in fondo il motivo. Ed è stato così, per gioco (dunque in modo divertente, pur con tutta la serietà che ogni gioco comporta) che un giorno (non ricordo più quando, ma a cavallo tra il 2020 e il 2021) ho iniziato, sporadicamente, a riprendere in mano i libri precedenti, e altri inediti, mettendomi alla prova, per così dire (con tutta la paura che ciò comporta), per vedere l’effetto che mi facevano, tracciando linee e tentando confronti, insomma provando a fare quello che tutti facciamo vivendo, nei momenti in cui meno viviamo, cioè cercare di capire. Ho innanzitutto ripreso in mano, con coraggio, i miei primi due libercoli, gli innominabili dell’esordio, quelli più distanti, scritti e pubblicati fra i sedici e i diciannove anni. Libri ovviamente immaturi, e sotto ogni punto di vista brutti. Per anni ho provato scoramento, e persino vergogna, nel vederli ancora in circolazione e avrei potuto, ma non l’ho fatto, impegnarmi per la loro sparizione. Certo ho taciuto, se mi chiedevano, ma non ho mai mentito. Se non l’ho spinti (e continuo a non farlo) fuori dalla mia storia, ciò non è dipeso certamente da un moto di riconoscimento nei loro confronti, di aderenza, tuttalpiù di faticosissima riconoscenza, nei limiti del possibile, verso un percorso che altrimenti, forse, non mi avrebbe condotto fin qui. Ovviamente di quei libri nulla si salva, non oggi almeno, se non proprio l’atto di onestà del non aver fatto carte false pur di estinguerli, riconoscendoli per quello che erano: dei libri immaturi e sotto ogni punto di vista brutti. Col senno del poi, ciò mi ha dispensato dalla posa falsa, e profondamente ingiusta, del Fenomeno esordiente, che per fortuna – avendo esordito male e in periferia – non ho avuto la disgrazia di subire. Certo, ad esser disonesti è un attimo a trovare la pelliccia nell’uovo (d’altra parte, gli annuari dei premi di poesia sono colmi di strabilianti opere prime che prime non sono). A distanza di dodici anni, mi sembrano ancora più chiare, allora, le parole di Marco Merlin (Andrea Temporelli) quando – introducendo alcuni miei testi ne La generazione entrante – diceva «prenditelo tu in squadra, il fenomeno: poi però non lamentarti se devi correre anche per lui». Io non so bene, al di là di ogni retorica, cosa si intenda davvero per esordio; non è forse ogni libro un esordio, e in qualche modo non è sempre lo stesso libro? Ho come l’impressione di non aver mai esordito, ma la speranza è di averlo fatto sempre meglio. Comunque, di quei due libri nulla si è salvato, tranne me. Ma in seguito, attraversando ciò che è venuto a partire dal 2010 (Il verbo infinito, La virtù del chiodo e Prova del nove) ho iniziato ad intercettare alcuni testi che mi sembrava fossero in qualche modo in risonanza con gli inediti degli ultimi anni; non nel senso di una somiglianza (che spesso io non vedo o della quale non mi importa granché) ma intuendoli, piuttosto, come reagenti o come collanti, se accostati agli inediti che costituiscono la gran parte di Stanze della luce e che in quel momento non credevo, ripeto, potessero diventare un nuovo libro. Nei lavori usciti a partire dal 2010, al di là di ogni ragionevole dubbio e fatte le dovute proporzioni, non ho mai smesso di riconoscermi; ma il pescaggio dei pochi testi poi riconfluiti in Stanze della luce (in modo parziale, integrale o rimaneggiati) non ha avuto a che fare in alcun modo, ad esempio, con un recupero di quelli in cui più mi sembrava di riconoscermi né con un esercizio manieristico fine a sé stesso. Si è trattato piuttosto di un gioco, serissimo, attraverso il quale mi sono lasciato andare, abbassando finalmente la guardia e provando a riascoltarli questi testi, in relazione ad un nuovo contesto. Se parlo di risonanza non è a caso: i frammenti estratti da quei tre libri e confluiti in Stanze della luce, hanno trasformato ai miei occhi una raccolta inedita sulla quale nutrivo sentimenti fin troppo contrastanti, in un organismo autonomo, al netto del suo valore. Quei testi, complessivamente pochi ma accuratamente ricollocati, mi hanno permesso di vedere con occhi diversi un percorso durato molti anni e di sentire come unito ciò che fino a poco prima unito non mi appariva.
Si faccia attenzione però a non far coincidere in assoluto i tre tempi di cui sopra con le tre macro-sezioni del libro (nell’ordine: Camera oscura, Riparando le palpebre ed Estate). Nonostante la logica costitutiva della raccolta somigli a quanto appena descritto, nei fatti le carte sono mischiate. In tal senso, e qui vengo alla scintilla della tua domanda, il terzo tempo del libro ha fatto sì che gli altri due non si annullassero a vicenda. Ed è, questo terzo tempo, il tempo della cura, che tiene insieme il tutto e fa sì che le parti, integrandosi, lo costituiscano. Lì, se ne esiste una, risiede la scintilla del libro.
In che modo la (tua) vita diventa linguaggio?
Ogni esistenza è di per sé linguaggio e diviene finché regge tale linguaggio. Semplificando brutalmente, ho l’impressione che una buona parte della nostra esistenza sia agita dal linguaggio che ci permea, mentre un’altra parte si agiti in cerca di una lingua, che è cosa diversa. Il linguaggio sta alla lingua più o meno come un apparato cardio-circolatorio sta alla mano che dipinge la Cappella Sistina. Io sto nel mio linguaggio finché respiro, cioè costruisco la mia biblioteca, vado al mercato, gioisco per il sapore dei cachi o mi dispero per le primule che si afflosciano e per la multa che prendo, e potrei continuare all’infinito; ma divento la mia lingua solo nel momento in cui sono in grado di tessere una ragnatela simbolica fra la biblioteca, i cachi, le primule, le multe e tutti gli eccetera che mi costituiscono e a renderla – e dunque rendermi – formalmente condivisibile. Rendermi dunque visibile, più che in carne ed ossa, come diremmo, in carne e idee, in verbi e fatti.
La poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile?
«Tagliare la lingua ad Adamo/significò piantare un albero». Questi due versi, che appartengono alla schiera dei trasmigrati di quel terzo tempo del libro di cui parlavo prima, mi pare la dicano lunga sulla questione linguaggio/lingua. Direi piuttosto che l’invalicabile è la lingua della poesia, e ciò a prescindere dalla qualità di trasparenza o opacità che la caratterizzano. L’invalicabile è la lingua della poesia: cambia poco o niente dalla tua domanda, ma allo stesso tempo è tutt’altra cosa.
Con i tuoi versi, “separare il niente dal niente,/ ricongiungere detto e non detto”, chiedo: la poesia può colmare la pensosa solitudine del poeta?
La poesia, direi l’arte in generale, quando scuote può unire ciò che è separato o sciogliere ciò che è unito e spesso alternativamente fa una cosa e l’altra, proprio perché fisiologicamente ne abbiamo bisogno, in modi e momenti diversi della nostra vita o della nostra giornata. Non mi riconosco molto nell’immagine veteroromantica della solitudine pensosa del poeta. Se provo ad osservarmi mi sembra di vivere la mia vita, e dunque anche la mia scrittura, oscillando tra il desiderio della contemplazione e l’urgenza dell’azione, fra la necessità di una dimensione estetica (e dunque estatica) che per quanto soggettiva permea, ai miei occhi, ogni cosa e la voglia di vivere con quegli stessi occhi l’atto più scontato e quotidiano, in una condivisione tanto ampia quanto semplice. E ciò, di per sé, mi pare abbia un risvolto etico, almeno nella mia visione. Questo non rende in assoluto persone buone né migliori, ma ognuno si approssima al bene o al male a modo proprio. Non esagero se dico che in fondo, per me, visitare una mostra o comprare dei fiori al mercato sono atti che non appartengono a momenti e sfere della vita separati. Sento di potermi annoiare o disperare, o di poter gioire e godere attraversando l’una o l’altra esperienza allo stesso modo, ma sento di stare in una lingua, cioè di vivere bene e di vivere pienamente quelle esperienze, solo quando percepisco che il venditore di fiori del mercato sotto casa, pur essendo lui (con tutte le sue sacrosante grazie e disgrazie) è anche lo stesso, ad esempio, di quella stampa giapponese che amo e custodisco. La mostra più bella del mondo mi viene subito a noia se non sento il mondo in quella mostra. Lungi da me ridurre il mondo al mio mondo: mi scaglio fieramente contro qualunque riduzionismo; mi piace credere piuttosto che questo possa essere il mio – e certamente non solo mio – modo di gettare gli occhi nel mondo e prendermene silenziosamente e faticosamente cura. D’altra parte mi viene da pensare che la poesia si assottigli estinguendosi, tanto quanto la vita, proprio nel momento in cui rinunciamo a questa meravigliosa (e talvolta dolorosa ma mai interamente afferrabile) ragnatela simbolica che ci agisce e all’interno della quale noi agiamo e condividiamo.
La poesia può risolvere – ancora i tuoi versi – “l’ostinazione di questa massa muscolare”?
La poesia dalla quale proviene il verso che citi è tra quelle più esplicitamente collocabili nell’incavo dell’assenza. Negli anni Settanta, ragionando sullo stile dell’Ariosto, in riferimento ai suoi versi Fortini formulò una considerazione che mi è rimasta particolarmente impressa: «quella pienezza denuncia i vuoti che non reca». Fortini pensava soprattutto ad un discorso metrico (per l’appunto: Metrica e biografia…). Quella massa muscolare, posta di fianco al solco dell’assenza, si rivela in tutta la sua evanescente ed ironica inutilità, ma l’ironia qui non è mai sarcasmo: è solo un modo per giungere, con meno rabbia possibile e con levità, al grande antidoto che è la tenerezza. D’altra parte l’assenza, la vera assenza, non è tanto una questione fisica ma riguarda piuttosto l’assenza dell’altro o dell’altra in me, più che davanti o di fianco. Certo, la fisicità, intesa come esperienza erotica del mondo, è una questione che mi tocca particolarmente e che ricollego anche ad una sinestetica mitopoiesi mediterranea. Non è un caso, tanto per tornare alla ragnatela simbolica e al doppio nodo contemplazione – azione, che la copertina del libro presenti da un lato una solida rappresentazione dell’estetico (piaccia o no) e dall’altro corpi che si agitano nel loro punto di maggiore azione: le mani. Ed è bene che si sappia che una delle due mani che si lanciano contro quel bianco, sfidandosi ad una partita di morra in un paesino sperduto delle Alpi, è realmente la mano di un direttore d’orchestra. E quando dico realmente, intendo realmente.
La forma quanto incide sulla “verità” della parola poetica? E il “suono”?
La forma più che incidere sulla poesia, la rende possibile. La parola poetica non ha una verità formale: è di per sé una verità formale. E in fondo tutto è verità formale. A rigor di logica non separiamo mai la foglia dalla linfa, tranne quando parliamo d’arte, e ciò perché dalla notte dei tempi abbiamo talvolta considerato, e continuiamo a farlo, forma e sostanza come gemelle diverse o sorelle adottive o persino le Caino ed Abele dell’estetica. La parola poetica è verità formale e di certo, seppur in modi infinitamente diversi, quello che tu definisci suono (da intendersi forse come ritmo, metro, melodia ecc.) è parte costitutiva di quella verità. Mi rendo conto che la mia scrittura, persino in prosa, è infarcita di questa musica fatta proprio di ritmi, metri e melodie introiettati in anni e anni di letture e scritture, e restituiti non sempre in modo del tutto conscio. Ritmo e metro, così come il fischiettare nel buio, proteggono; la compattezza e la riconoscibilità che ne deriva sono croce e delizia di una scrittura che, per quanto autocritica possa essere, subisce sempre i propri automatismi. Di ciò si è discusso a lungo nel Novecento, anche in Italia, e fortunatamente si continua a farlo. Non di rado, questa musica di cui parliamo, mi ha nauseato, anzi mi nausea, innanzitutto in relazione alla mia di scrittura. Credo che in qualche modo, uno dei motivi di rifiuto che ho avuto, e mi capita di avere, rispetto a molte poesie (mie e non) dipenda anche da questo malessere percepito nei confronti di un automatismo che al di là dell’aspetto più superficiale (ad esempio un certo bagaglio lessicale) tocca soprattutto il piano ritmico e metrico. Più volte in questi anni ho avuto il desiderio (oltre che di buttare tutto nella spazzatura, va da sé) di tradurre, letteralmente tradurre, in prosa quelle poesie. E certamente ciò ha condizionato in qualche modo il viaggio di Stanze della luce, ma non è abbastanza, non del tutto. Se da un certo momento in poi, lo dicevo prima, ho scritto sempre meno in versi dipende forse anche da questo oscillare tra il desiderio (la necessità?) di quella musica, di quei ritmi, e l’urgenza di una musica altra, diciamo una musica del pensiero. Potrei citare qui molti poeti che pure amo e che vanno in questa direzione ma farò solo un nome, e non è nessuno di quei poeti: Claudio Parmiggiani. Che pure, tra le altre cose (per chi lo sa), poeta lo è, eccome.
Qual è stato, ad oggi, il dono più prezioso ricevuto in dono dalla poesia?
Da un lato la possibilità di esperire, attraverso i sensi, con maggiore pienezza e dall’altro l’occasione di capire – e vivere – con leggerezza e acume, cioè con finezza. È questo quello che cerco nella poesia che leggo tutti i giorni, e immagino sia anche questo, in qualche modo, ciò che mi guida – magari inconsciamente – scrivendola.
Per concludere salutando i nostri lettori, ti invito a scegliere una tua poesia dal tuo libro “Stanze della luce” e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.
Non ricordo cosa è accaduto né se è accaduto qualcosa in particolare, e forse non è poi così importante, ma la poesia che ho scelto mi sembra racconti bene quanto detto fin qui rispetto al viaggio di questo libro.
Felicità
Scuci ad uno ad uno i punti di sutura,
da sinistra a destra. Lentamente.
Non è un rito, è un’apertura.
Il primo è tolto, fa male, scuote le palpebre
fa dire “no, ti prego, fa male”.
Non è un rito, prega quanto vuoi, fa male
il primo è tolto, è un’apertura,
e poi il secondo il terzo e via dicendo
apri prima un occhio e dopo l’altro
da sinistra a destra, da destra a sinistra
apri, la salsedine che brucia
scioglie ogni sutura salda l’apertura
la salsedine che brucia
e bende, e luce sulle bende,
la salsedine che brucia
e luce, e luce oltre la cura.
C’è uno spazio e tu ci sei, sei nel vero.
Svuota goccia a goccia tutta questa rabbia,
rovescia ogni idea che faccia leva sulla colpa
colpiscila affondala levala di mezzo levala del tutto
davvero non c’è colpa, non c’è
è altro il vero per cui ti batti e non lo sai
altro il vero che persegui altra verità
e lo sai, la sai, la chiami, l’unica, la nomini
è tua è nostra, soldato semplice o condottiero
non importa, prendendo a calci il nero
non importa il colpo la rabbia il vero
è acqua passata, è acqua che passa
nuotando, nuotando.
(pp. 86-87)
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Giuseppe Carracchia (1988) è un poeta, studioso e docente. Cresciuto a Palazzolo Acreide, ha poi studiato, condotto ricerche e insegnato in svariati contesti, in Italia, Tunisia e Bosnia-Erzegovina. Ha pubblicato libri di poesie e plaquette d’arte, fra cui – oltre a Stanze della luce (2022) – Prova del nove (Ladolfi 2015), La virtù del chiodo (L’Arca felice, 2011) e Il verbo infinito (Prova d’autore, 2010). Suoi testi sono stati inseriti in antologie (tra le quali La generazione entrante e Post ‘900. Lirici e narrativi) e pubblicati su riviste, in Italia e all’estero (trad. in bosniaco, spagnolo, greco e inglese). Ha vinto alcuni premi (fra cui Lerici Pea giovani, Mario Luzi, Gradiva-New York, Città di Sassari, Montano); è redattore della rivista Atelier. Vive attualmente a Torino.
(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 12.03.2023, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).