Lorenzo Rapisarda, “A perdersi”, poesia come “dono che accade nell’istante presente”.

tre domande, tre poesie 

 

“In poesia sono rari gli esordi giovanissimi e folgoranti, alla Rimbaud del Battello ebbro (scritto quando aveva 17 anni), per intenderci, o, venendo ai nostri giorni, alle Somiglianze di Milo De Angelis, pubblicato nel 1976 da Guanda quando l’autore era venticinquenne. La poesia richiede vocazione e illuminazione, certo, ma soprattutto tempo, dedizione e labor limae. Ed è quanto accade con A perdersi, splendida e toccante raccolta d’esordio di Lorenzo Rapisarda: un viaggio portato a termine dopo lunga gestazione che mette a fuoco i temi della grande poesia: l’amore, il dolore, la nostalgia di quell’Eden perduto che a brevi intermittenze riverbera nel nostro quotidiano (…)”. Uno stralcio dalla prefazione di Alessandro Rivali, per introdurre la nostra intervista al poeta Lorenzo Rapisarda (nella foto in copertina di Gabriele Capodanno).

Qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “A perdersi”, pubblicato con “Giuliano Ladolfi Editore”, meglio: in che modo la (tua) vita diventa linguaggio?

Non è semplice provare a dire in poche righe il modo con cui il mistero della vita si fa linguaggio poetico. Non tutto è spiegabile. E la poesia – come tutta l’arte – in fondo porta sempre qualcosa di inspiegabile. Come il profondo della vita. Pensandoci bene la vita è già linguaggio, si fa presente attraverso dei segni. Dei segni che rimandano ad altro. Allora forse ciò che amiamo chiamare poesia potrà essere l’umile servizio di un ascolto, lasciare spazio al dono della voce custodita nel reale in-seguendo quel ritmo che vive nel miracolo della parola che sboccia nel silenzio. E si fa suono. Quel linguaggio del mistero che vive dentro il quotidiano.

“non ci resta che stare, il miracolo / si cela lì tra le cose di sempre”. È l’esergo di Polaroid, sezione di “a perdersi” dove probabilmente appare più evidente l’accendersi del fenomeno poetico in relazione ai fatti dell’esistenza.

In fondo è uno stare tra le cose di sempre, le cose di tutti i giorni, perché tutte le cose sono del sempre, richiamano al desiderio di eterno che è in noi. Da questo stare nel reale senza precauzioni, dall’incontro con la realtà che pro-voca e chiama a venir fuori, la poesia accade come un’umile risposta all’appello della vita, ferita che si fa verso, gioia che si fa canto. Una risposta che a volte si fa mendicanza di senso, altre volte richiama ad un impegno e nell’impatto col reale assume un compito lasciando il segno. Nasce come un dono che accade nell’istante presente: un’istantanea dell’eterno che c’è in noi.

La poesia è un destino?

Dipende da cosa intendiamo con la parola destino. Perché si vive? Non è scontato. Ecco, nell’esperienza di tutti i giorni mi scopro in cammino. Mai fermo. Mai quieto. Perché c’è la destinazione. E forse il destino dell’uomo è questo andare verso, dentro ogni passo. In questo andare verso accade poi di accorgersi di essere a tratti abbracciati. Altre volte di essere costretti con le spalle al muro. Da una delusione o da un fallimento. E allora ti ricordi del bisogno che sei. E la poesia di questo bisogno si fa testimone, con le parole si fa carico del destino per cui siamo fatti e accompagna. È una strana compagnia al destino. Che a volte sconvolge, altre cade, si rialza e ritorna sui suoi passi, come una danza o un movimento scritto tra gli astri. Sempre in cerca, sempre inquieta, sempre in allerta. Custode del bello che c’è, come la donna che ti ama o l’amico che ti sprona ad essere ancora una volta all’altezza di quello per cui sei fatto. Sempre tesa ad indicare la direzione. Come un fuoco segnalatore acceso nella notte. Evoca, chiama ad essere e accompagna inesorabilmente lungo la strada, legandosi all’irripetibile destino di ogni uomo. Ma non è destino. O il fine della vita. No. La vita viene prima. Sempre. Grazie al cielo!

Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a riportare tre poesie dal tuo libro; e di queste scegline una per condurci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quando “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere (nel contesto del libro che l’accoglie).

Vorrei restare nel tuo silenzio
io che non ho più parole
da viverti, abbracciare la tua voce
esserti ancora fianco a fianco
per toccare il fondo vitreo
disperso in frantumi di stelle
per chi non c’è più e per chi nel tuo
stare resta in un abbraccio fraterno.

Con te sono avuto.

*

È in questo istante che vive il presente
e in questa carne la vita che passa.

Tirata a secco la notte
è una barca con dentro noi,
quindici anni appena. Roccalumera.

Lascia ancora che sia corpo
ciò che non riesco a dirti
e nella voce dei tuoi occhi
insegnami
l’alfabeto dello sguardo.

*

Notte.
In attesa di luce io sono noi.

Tutte le poesie in fondo sono già. Esistono già prima di nascere. In qualche modo partecipano al mistero che c’è dentro tutta la creazione. E il loro parto segue sempre un travaglio, sofferto. Anche quando il concepimento avviene nell’esperienza della gioia. E si fa gratitudine nei versi. Si offre. O nel dolore. Nel correre il rischio di prendere una decisione, nella routine di un lavoro che ti tocca fare. In fin dei conti scrivere è una resa.

Allora ad un certo punto la questione qual è? Me ne accorsi da giovane – quindici anni appena – dentro un abbraccio concretissimo, caldo, pelle con pelle. Lasciarsi insegnare ancora l’alfabeto dello sguardo. Farsi educare sempre, per poter dire quell’abbraccio che accade, per lasciare spazio a quella voce, rendersi ancora disponibili a quello sguardo che è ascolto. Fino a nominare le cose sillaba per sillaba, balbettarne il senso nascosto, tutto il profondo che sono. È un’educazione dello sguardo che si impara soltanto dentro un rapporto, dentro la relazione con un tu: Con te sono avuto.
E che nei versi della sezione centrale “a perdersi” prova a farsi cantico di quella particolare forma di vocazione che è l’esperienza del matrimonio cristiano. Un’esperienza che per-dono si fa respiro grazie al ritmo dell’endecasillabo: “a te, che hai reso respiro l’affanno”.

I tre testi che ho riportato richiamano a questa costante, un’esigenza permanente che arde al fondo della raccolta. È il bisogno di scoprirsi noi, l’esperienza di libertà che sboccia dentro l’appartenenza ad una compagnia vissuta. Appunto come accennavo prima, una compagnia al destino. Dante solitario smarrisce la diritta via e grazie all’incontro con Virgilio e poi con Beatrice si lascia condurre seguendoli lungo il viaggio di tutta la vita, un cammino di conversione: verso la felicità.

Anch’io conobbi la lonza, il leone e la lupa. E a un certo punto oscuro della vita venni letteralmente salvato da due mani che abbracciarono le mie caviglie. Da quel punto non si torna indietro. È l’esperienza di una Grazia fisica, anatomica. La Grazia di un incontro. È l’inizio di “a perdersi”, il nuovo inizio del viaggio che la vita mi ha riservato. Un viaggio in cui la poesia è continua conoscenza da in-seguire attraverso la riscoperta delle parole. Conoscenza del profondo che è l’esistenza e tutto ciò che ci circonda. Così nel mezzo del cammin, all’improvviso dopo diciassette anni di silenzio ripresi a scrivere. E a vivere. Avevo trentacinque anni. Le mani sulle caviglie e i versi che rifioriscono. Poesie da tempo abbandonate – come la vita smarrita – furono ritrovate. Tra queste amo ricordarne una in particolare, forse perché emblematica di ciò che accadde. Circa venti versi. E poi come la vita che taglia e toglie rinasce offrendosi all’essenziale. Per sottrazione. Diciassette anni di silenzio per una potatura. E di quei venti versi oggi ne restano ancora due:

Notte.
In attesa di luce io sono noi.

Lorenzo Rapisarda (Catania, 1982), lavora a Catania presso l’Istituto Francesco Ventorino ed è tra i soci fondatori dell’omonima fondazione. I suoi interessi riguardano la poesia italiana del Novecento e in particolare Cesare Pavese. Collabora con il Centro di Poesia Contemporanea di Catania, con cui organizza laboratori, incontri e letture, e appartiene al Centro Culturale di Catania. Collabora con diverse riviste di poesia contemporanea mediante la pubblicazione di articoli e recensioni. Cura la pagina culturale del periodico d’informazione “Prospettive”.  Sue poesie sono apparse su riviste, blog e siti letterari su internet. “A perdersi” (Giuliano Ladolfi Editore, marzo 2022) è la sua raccolta d’esordio, con la prefazione di Alessandro Rivali e la nota di Daniele Mencarelli. All’interno dell’antologia “Distanze verticali – escursioni poetiche sulla montagna” (Macabor Editore, 2024) curata da Irene Sabetta sono pubblicate le sue poesie del “Trittico per l’Etna”.

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