Massimiliano Virgilio e “Il tempo delle stelle”, oggi al Festival TeatriRiflessi8.

«Una stella cadente può dissolversi da un momento all’altro e se tu non le affidi il tuo desiderio in tempo rischi di non poterlo più realizzare. Per questo, appena ne vedi una, ti devi spicciare e appizzarglielo sopra!». Un passo scelto da “Il tempo delle stelle”, nuovo romanzo “sottopelle” di Massimiliano Virgilio (nella foto di Lorenzo Lapiccirella), pubblicato con Rizzoli. L’autore con un linguaggio moderno, fulmineo, introspettivo, addentra la vastità della materia trattata (la mancata genitorialità) muovendo attorno al tema inviolabile del “desiderio”. Lo spirito è certamente quello di essere presenti a noi stessi, di imparare a riconoscere le radici dei nostri desideri, di restare saldi alle nostre vocazioni, di riconoscere il momento (prezioso e fruttifero) in cui bisogna desistere. Coerenze indispensabili al benessere emotivo, alla crescita spirituale, alla capacità reale (e prolifica) di incontrare lo “sguardo” altrui, come, altrettanto, la ricchezza dell’alterità. Tema quest’ultimo di “Teatri Riflessi”, festival internazionale dei corti, diretto da Dario D’Agata e Valerio Verzin, che ospiterà Virgilio, a Zafferana Etnea, il prossimo 15 luglio (ingresso libero). La presentazione sarà curata da Luigi Tabita all’interno dell’evento Genitorial(ter)ità, realizzato in collaborazione con Giacinto Festival, dedicato al dibattito sulla; interverrà anche l’attrice Egle Doria (Famiglie Arcobaleno in Sicilia).

Dove metaforicamente è nato e in che modo è cresciuto “Il tempo delle stelle”? 

È nato sottopelle, a un certo punto, quando è scoppiata la pandemia, con mia moglie ci siamo resi conto che quel percorso che avevamo iniziato si stava interrompendo perché chiudevano le strutture mediche, chiudevano gli ospedali e ci si rendeva conto che in qualche modo il tempo della biologia davanti a questo evento epocale, che imponeva di non curarsi, che chiudeva i centri di procreazione assistita… questo evento epocale, come dire, faceva slittare in avanti il tempo biologico rispetto al tempo della cultura. Interrottosi quel percorso ecco nascere fuori qualcos’altro: un’idea di romanzo che è un’idea di futuro.

“Il tempo delle stelle” è breve?

Non è breve. È un tempo fuggevole, è un tempo ingannevole perché quando guardiamo qualche stella in cielo in genere guardiamo un fenomeno che in realtà è già avvenuto milioni di anni prima, se non migliaia di anni prima, e quindi guardiamo sempre qualcosa che non c’è più… Più che breve quindi è un tempo fuggevole e ingannevole. E questo meccanismo secondo me è perfetto per raccontare anche la vita di coppia. A volte gli effetti appaiono comuni di qualcosa, dei desideri, appaiono comuni ma in realtà le radici sono così diverse da rendere inconciliabile un discorso veramente duraturo.

Qual è il tuo “centro gravitazionale”?

È la scrittura. È in qualche modo provare a ruotare attorno a tutto ciò che è una libera ricerca del proprio pensiero. E io credo che questo sia la scrittura per quando mi riguarda. Difficile dire cosa sia, in genere so dire cosa non è ma sicuramente è il centro gravitazionale di una vita, di una carriera, e lo è soprattutto attraverso i libri degli altri. Ecco se dovessi dire qual è il mio centro gravitazionale direi che forse sono quei libri che in passato, soprattutto da ragazzo, mi hanno salvato la vita.

Cosa può la parola (meglio lo scrivere) a favore della “riduzione del danno”?

Cosa può la parola (meglio lo scrivere) a favore della “riduzione del danno”? Io credo ben poco. Non sono uno di quegli scrittori che crede all’idea terapeutica della parola, della scrittura, anzi credo che in realtà la parola sia qualcosa di velenoso, qualcosa di chi ti spinge ad affrontare dei nodi che, come diceva Pasoli di sua madre, che non si possono sciogliere. Cosa può la parola? Può permetterci di inseguire dei fantasmi che alla fine scopriremo essere soltanto dei fantasmi, delle immagini riflesse di qualcosa altro della cui essenza non riusciremo a cogliere nulla o praticamente nulla.

Cosa può un libro contro “l’ordalia social”, contro la trappola infernale che ha catturato e sgretolato (impazza un agire senza coscienza che dal virtuale approda al reale con esiti funesti) il senso dell’esistenza? Cosa può (oggi) contro la “dimenticanza”?

I libri possono molto, possono molto, possono se non migliorare la realtà, così in cui non credo, possono rappresentare un freno oltre quella che tu descrivi “l’ordalia social” ma come farlo? È questo il grande tema. Credo che passi attraverso l’astensione, il silenzio, credo che passi attraverso la ricerca di un canale nuovo, parallelo se vogliamo, che è quello dei social, a quello del virtuale, e parallelo anche a quello del reale. Credo che un libro debba oggi porsi come obiettivo quello di essere una realtà altra. Nel momento in cui è una realtà altra, si pone inevitabilmente come un oggetto testimoniale e quindi, in qualche modo, di per se raggiunge un valore altissimo, contro quella che tu chiami la dimenticanza.

Qual è stato il confine che pensi di aver superato grazie all’immediatezza della tua scrittura?

Non so se ho superato un confine, anche perché io mi definisco più uno scrittore della frontiera che del confine; spero di non essere troppo enfatico o autocelebrativo con questo ma amo molto di più la frontiera dei confini, mi piacciono più i territori sconosciuti, dove pioneristicamente andarsi a infilare. Di sicuro posso dire che il territorio sconosciuto che ho incontrato dopo la pubblicazione di questo libro è stato quello dei lettori, in particolare delle lettrici, tutte le persone che mi hanno regalato un contatto con la materia del mio racconto; a volte persino eccessivo, persino qualcosa che come persona  non sono pronto ad accogliere ma che come scrittore capisco ed è proprio quell’immediatezza di cui parli che forse è stata un veicolo per entrare in contatto con le loro storie, con le loro paure, con i loro traumi. Una delle cose più belle che mi è stata detta è che: leggere quel libro mi ha dato delle risposte, ha placato alcuni miei interrogativi, e mi sono sentita per la prima volta meno sola, e questo mi ha molto emozionato perché appunto credo che quello sia un territorio sconosciuto per quanto riguarda la mia vita di scrittore.

Con Bufalino, ti chiedo: “si scrive per rendere inoffensivo il dolore, biodegradarlo, come si fa coi veleni della chimica. Può essere una vernice, la scrittura, che ci anodizzi i sentimenti e li protegga dalle salsedini della vita”?

Io non credo alla parola che salva, alla parola che scortica, alla parola che avvelena. E credo che prima di procedere a rendere inoffensivo il dolore, anodizzarlo, proteggerlo dalla salsedine della vita, credo che il dolore vada conosciuto, vada compreso, vada afferrato fino in fondo e credo che la parola serve a questo. E a volte scrivere è esattamente l’opposto di praticare una terapia. Scrivere è un po’ come fanno i personaggi protagonisti nell’ultimo stupendo libro di Cormac McCarthy, “Il passeggero”, quest’eredità letteraria che ci ha lasciato questo grande scrittore, dove metaforicamente loro scendono sottacqua a scoprire qualcosa di incredibile: un aereo che è affondato, con dei passeggeri a bordo, di cui nessuno sa nulla; come c’è finito lì sotto? E perché? Ecco credo che sia un po’ questo la scrittura; si scrive per andare a scoprire in profondità qualcosa che nessuno sa o quel qualcosa che qualcuno sa ma di cui non vuole parlare. È letteralmente scendere negli abissi.

Che fine ha fatto la resistenza (almeno) intellettuale? In che modo, specie in un momento storico “delicatissimo” come quello che stiamo vivendo, in un mondo sempre più incapace di ascoltare (e volutamente ridotto all’incapacità di comprendere) cosa può la scrittura?

Credo che la resistenza intellettuale oggi vada rimodulata su nuove coordinate. Credo che continuando a rivolgerci agli intellettuali così come li abbiamo conosciuti o così come si è voluta la figura dell’intellettuale, credo che commettiamo un grande errore. Credo quindi che la resistenza intellettuale oggi non passa necessariamente dagli intellettuali, ma passi molto dalle persone che fanno, dagli operatori, dalle persone che vivono appunto quel territorio di frontiera in un momento storico molto delicato come quello che stiamo vivendo. La scrittura però può qualcosa, io credo molto nel fatto la scrittura possa attraverso la ricerca della migliore scrittura farsi di per se partigiana, essere di per se un elemento di resistenza. Oggi credo che il maggior atto di resistenza politica sia la ricerca dell’intelligenza e quindi per questo i libri forniscono un’opportunità formidabile, soprattutto per il modo in cui si distanziano dalla sceneggiature, si distanziano dalle serie, cercando di non competere, diciamo, prodotti più tipici dell’intrattenimento ma creando di andare in quegli abissi e evitare di surfare sulla cronaca e di scendere giù negli abissi delle grande domande latenti sociali inespresse. È questo è quello che fa la scrittura e questo è quello che fa secondo me in particolare il romanzo, o meglio, dovrebbe fare.

I libri devono più istruire o più interrogare?  E, nella seconda eventualità, quale vorresti fosse l’interrogativo cardine sollevato dal tuo “Il tempo delle stelle”? 

Non uno di quelli che si pone il problema di cosa deve o non deve fare un libro ma naturalmente non credo nel romanzo a tesi, non credo nell’istruzione pedagogica, non credo nell’idea che lo scrittore debba essere una brava persona e porsi dal lato giusto della storia o anche dell’attualità o dei problemi che sono usciti dalla nostra condizione in questo momento… quindi sicuramente il ruolo di uno scrittore o di un libro è quello di provare a interrogare o, come dire, a provare a sminuire le certezze… Ma sai in definitiva ogni buon libro fa questo in automatico. È proprio questo il punto. La bella scrittura è una componente, l’altra componente che fa di un buon libro un buon libro è la sua capacità di non prendere posizioni ferme, di essere, come dire, un navigante di grigi. Per quanto riguarda l’interrogativo che vorrei sollevasse “Il tempo delle stelle” anche qui – il maestro Wiseman , documentarista da me amatissimo – una volta disse  “se volessi inviare un messaggio andrei alle poste a farlo”, però se dovessi inviare un interrogativo, operazione meno retorica ed enfatica, vorrei che le persone si interrogassero e in particolare vorrei che si interrogassero sui recenti della propria capacità di desiderare, sulle radici della propria capacità di desiderare: come nascono i nostri desideri? Come li instradiamo? E come scorrono parallelamente alla nostra vita quotidiana, queste vite silenziose, enormi infinite che è fatta dei nostri desideri. E vorrei soprattutto che ci si interrogasse su cosa facciamo ogni giorno per coltivarli nella maniera più adeguata e per poter, come dire, elevarci al di sopra di una condizione che non sia quella di una belva desiderante ma possa essere quella di una belva che in qualche modo riflette sui suoi stessi desideri ed è capace di viverli senza sensi di colpa ma anche senza violenza nei confronti degli altri.

(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 07.07.2023, pagina Cultura).

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