tre domande, tre poesie
“È come se Nadia Scappini avesse deciso, per un improvviso clinamen interiore, di trascinare il proprio universo versificatorio verso una diversa dimensione, sostituendo alle cuspidi della meraviglia, agli squilli della gerarchia, alla singolarità dei versi, alla solennità delle strofe, la più difficile e nascosta delle virtù, che è l’umiltà, intesa – al di là di ogni valenza teologica che pure rimane – alla luce del disvelamento etimologico. Il termine umiltà, infatti, trae origine dal latino humus (terra), che a sua volta rimanda alla radice sanscrita bhu, da cui uomo, creatura generata dalla terra, che veicola perfettamente il sentimento di piccolezza nei confronti della Divinità e dell’Universo. L’umile, dunque, è chi si fa basso, prossimo alla terra (al contrario del superbo che cresce sopra: super-bios) legato alla propria natura che la com-prende. Non a caso ci imbattiamo in certi sottotitoli quali preghiere piccole e parole piccole. La pronuncia non è quella del vate ma del profeta che si pone in ascolto e a servizio della Parola, divenendo espressione di una postura religiosa, che, nell’accogliere l’origine di ogni uomo dalla terra («allora Dio modellò l’uomo con la polvere del terreno e soffiò nelle sue narici un alito di vita» Genesi 2,11), si è trasmutata poeticamente in un’adesione emozionale ai luoghi, alle figure, alle memorie della propria infanzia cantate con forte potenza evocativa soprattutto nella sezione dedicata a Ledine (piccolo paese della Slovenia). Così ne scrive Giancarlo Pontiggia nella postfazione a Come dire dell’amore, Moretti&Vitali 2019: «Ledine, la “piccola patria” di queste pagine, è “uno spazio di misura” dove tutto “è dato con fatica e goduto” con sapienza, dove la vita sembra ancora obbedire ai ritmi di un’arcaica, “mite accettazione” degli accadimenti della vita. Pare una regressione al mondo contadino di un tempo che la modernità ha spazzato via: ma esprime innanzitutto lo sforzo di tracciare uno spazio di interiorità che congiunga l’anima di chi scrive al corpo del paesaggio stesso, con tutti i suoi segni antichi, le presenze ancestrali radicate nelle “inestricabili vene” di una collina: l’anima di chi scrive cerca, insomma, la sua verità nell’“anima sopita della terra”, spiandone il segreto originario, in una dimensione di vita e di pensiero inevitabilmente divisa “tra ombre e cose”, ma sempre nella fiducia di un “accudire” che è insieme del cuore e della terra».
Il ritorno alla propria terra e, perciò, alla propria infanzia, equivale ad una mitizzazione personale di figure che si innestano in una simbologia archetipica collettiva, grazie alla quale la madre, la nonna, le donne contadine, cantate dall’autrice, si identificano con le custodi millenarie di una naturale, arcaica sapienza e di una fertilità gioiosa ed empatica con il grembo generativo della Madre Terra celebrata da tanti miti e leggende. Rinviano, dal punto di vista conoscitivo, al rapporto tra la verità del mondo e la poesia come ricerca di epifanie all’interno dell’esperienza sensoriale; dal punto di vista psicologico a un sentimento di continuità garantito dalla propria esistenza all’interno di una più vasta e secolare successione di generazioni; dal punto di vista spirituale ad una volontà di recupero di un primigenio approccio con le cose, di una conoscenza “infantile” e “innocente” e, infine, dal punto di vista linguistico, al desiderio di una lingua dematerializzata che sia vibrazione, pura luce.”
(dalla postfazione, Il ritmo dell’essere insieme, di Franca Alaimo)
In che modo la tua vita diventa linguaggio, come è nata la tua antologia “sul fianco del mattino” (peQuod, collana Portosepolto, 2024, volume a cura di Luca Pizzolitto)?
Molte volte nel mio percorso di scrittura, ma direi ancor prima, ho pensato che mi sarebbe piaciuto scrivere di qualcosa che ha a che fare con la mia quotidianità, con le persone le abitudini gli oggetti i pensieri le fatiche le soddisfazioni e, soprattutto, di quelli che Virginia Wolf avrebbe chiamato moments of being: una giornata, un evento in famiglia nei minimi dettagli. Sì, perché sono convinta che a plasmarci, a formarci, a darci la misura del tempo e delle nostre reazioni rispetto ad esso e alle relazioni è l’ordinarietà, a volte la ripetitività di certi gesti, spesso espressione di cura, per me esigenza interiore prioritaria, qualcosa di infinitamente piccolo e nascosto dentro un movimento ascensionale.
Cosa c’entra questo con la poesia?
C’entra eccome, a mio parere, sia per convinzione, sia per esperienza sul campo, da lettrice e da autrice. Essa, infatti, anzi lei che ha il potere di svelare o rivelare, lei che è dono, intimità all’origine incontrollata, non ha fatto che dimostrami che l’eclatante, così come il mistero, stanno nell’ordinarietà. E che, essendo lei anche un fare, può accogliere e dare espressione, che so, a una cosa umile e banale come potrebbero essere i suoni che accompagnano i gesti in cucina: il rumore dell’acqua quando si lavano le verdure, il fischio della pentola a pressione quando inizia il bollore, lo sfrigolio dell’olio quando si friggono le melanzane, il tintinnio delle posate nel cestello quando nel mucchio indistinto se ne cerca una, ad esempio un cucchiaino che sfugge alla presa tra quelle più alte. Suoni e profumi che danno senso alle cose – “ogni casa ha la sua puzza – scriveva Natalia Ginzburg nel suo meraviglioso Lessico famigliare -, che risuonano dentro e significano un bene sia per le persone vicine sia per quelle che entrano nella sfera familiare anche occasionalmente. Personalmente vorrei che anche loro si sentissero accolte da quei suoni/profumi, piccoli ma non insignificanti che connotano il ritmo della casa, che suggeriscono una precisa intenzione.
Non è il nostro immenso Dante che, nel quarto canto del Paradiso, ci ricorda come sono i sensi i primi recettori dell’uomo che “solo da sensato apprende / ciò che fa poscia d’intelletto degno”? Perciò continuo a pensare che l’accoglienza debba passare in prima battuta attraverso gesti/segni di cura che hanno a che fare con i sensi. Un fiore, una musica di sottofondo nell’intimità di una casa, il profumo gradevole – di una torta di mele per esempio – che si offre a chi entra, crea o cementa relazioni, favorisce la confidenza, fa percepire l’armonia dello stare insieme. E il suono dei bicchieri che tintinnano per un brindisi, il rumorino della crosta di una rosetta che si frantuma, le parole che come fumetti attraversano la tavola in direzioni diverse ma convergenti, sono movimenti esteriori che diventano, a nostra insaputa, interiori; nell’intonazione e nelle vibrazioni di una voce possono farsi senso, atmosfera dell’anima.
Così il linguaggio, che si fa veicolo e tramite di tali atmosfere.
Tutto questo, però, sensazioni istintive intrise di pensieri confusi, è maturato in un tempo lungo, a partire dall’infanzia in cui una pulsione attinente a una zona misteriosa della coscienza covava dentro di me, acuendo una sensibilità già allenata che però non trovava uno sbocco. La svolta, nei primi anni del duemila quando un fiume in piena, che premeva da tempo, ruppe gli argini e, per alcuni giorni di seguito (all’ombra delle robinie e accompagnata dal canto delle cicale) mi costrinse a scrivere versi in una sorta di trance. Era giugno, mi trovavo in campagna, nella casa dei nonni paterni, dove sono le radici della mia famiglia che, come in uno svelamento improvviso, avvertii attecchite anche dentro di me… Compresi allora che “non si colmano i vuoti del tempo, illuminarli però fa bene”, come scrisse Maria Corti, donna cordiale, grande filologa, critica letteraria e semiologa.
E, in qualche modo, mi sentii liberata da tanti lacciuoli sperimentando la felicità del comporre (Leopardi docet).
Ed arriviamo al 2003 quando, per una serie di coincidenze del tutto impreviste – era destino? -, le mie antiche pulsioni lentamente si tradussero in parole ospitate in quello che sarebbe diventato il mio primo libro. Da allora la mia voce ha attraversato diverse fasi: inizialmente vicina al parlato a testimoniare la gioia della neofita, più controllata e decisamente ermetica nella seconda prova, essenziale ma più chiara e distesa in seguito, fino a diventare canto/narrazione con i dovuti filtri ma anche il coraggio dell’autobiografia, laddove questa poteva configurarsi come esperienza condivisibile. E qui si trova la spiegazione di ciò che balbettando ho cercato di spiegare sopra. Il centro dei miei interessi, cioè la relazione, dalla più intima ad ogni altra, declinata in varie situazioni e circostanze, divenne materia di studio e di ispirazione continua e feconda in un movimento ascensionale che ben riassume un pensiero Theilard de Chardin, filosofo e teologo da me molto amato: “Tutto quel che ascende converge”.
La poetica, invece, è rimasta la stessa: poesia, preghiera e profezia sono sorelle – mi piace semplificare così questa interconnessione – che ritrovo fedeli complici e compagne nel silenzio e nella solitudine. Perciò, quando scrivo, credo e prego insieme, insomma faccio un atto di fede nella vita. Era dunque la poesia a covare in me, inconsapevole, fin dall’infanzia, tormentandomi a lungo prima di farsi linguaggio. Mi piaceva il silenzio, percepivo le vibrazioni della natura e talvolta mi ritrovavo assorta perdendo la cognizione del tempo.
La cosa maturò anche grazie alle mie meravigliose insegnanti della scuola elementare Maria Cristina Dallagiacoma e Valentina Ghesla. La prima ci insegnò ad osservare e rispettare la natura; la seconda a leggere e a godere della poesia. Riprendendo in mano i quaderni di allora mi sono commossa non poco trovando conferma a ricordi che custodivo in me con tenerezza.
E veniamo a “sul fianco del mattino”: vent’anni di poesia, 2003-2023.
Un libro della maturità, un’antologia dove, rivisitando sette sillogi venute alla luce dal 2003 al 2023, ripercorro con commozione i momenti primigeni della mia vocazione poetica fino ai più recenti, portando in scena persone e figure dell’immaginario che hanno rivendicato uno spazio nella parola. E via via mi affaccio con pudore dentro un’intimità domestica e affettiva dove sono i luoghi dell’anima visitati dal tempo e radicatisi nella mia carne, le persone care scomparse alla vista ma più che mai presenti nella mia esistenza – tra queste non solo familiari e amici ma anche maestri auctores artisti -, a raccontare di un cammino incessante che lega passato e futuro, che aiuta a sciogliere nodi e a testimoniare momenti di intensa felicità. A dire che nell’amore desidero collocare ogni mia relazione, che la poesia è stata e continua ad essere per me sorella di preghiera e strumento misterioso e salvifico per esprimere tale convinzione. Lo confermano i sette inediti che chiudono la silloge.
Sono, dunque, una primipara attempata, avendo iniziato a scrivere dopo i cinquant’anni.
Dalle ripetute letture dei testi che hanno accompagnato vent’anni della mia vita, ho compreso come essi siano stati una riflessione incessante sulla sostanza delle relazioni, da quelle familiari, attraversate da molta sofferenza, a quelle esterne, fino al trascendente dove – come dice l’amico poeta e critico raffinato Gianfranco Lauretano – «non manca mai un punto di fuga, un innalzamento fatto di domande e risposte che consente una connessione alta anche nelle situazioni evocate nel modo più feriale». Qualcuno ha definito il libro diario interiore costellato da intermittenze del cuore.
Di certo posso registrare l’esperienza di un’apertura lirica (?) inattesa, ma convinta e senza remore, al punto da essermi sentita misteriosamente imporre una forma che mai avrei pensato di utilizzare, tantomeno in una autoantologia. Forma minima, quasi una narrazione necessaria, a dire – ma l’ho compreso a cose fatte – come ogni creatura sulla Terra abbia pari dignità e, per significarlo, esiga di essere nominata con la lettera minuscola.
La poesia è un destino?
Ovviamente posso rispondere solo per me e direi di sì. L’ho sempre amata, magari senza averne consapevolezza, associandola al lato spirituale dell’esistenza, sentita come qualcosa che andava ad insinuarsi nei meandri più nascosti di cervello e cuore e, quindi, tenuta in alta considerazione. Perciò non avevo mai assecondato l’impulso di tentare qualche verso, salvo che nel periodo adolescenziale in cui premevano emozioni forti e infinite domande sulla vita, considerandolo comunque un esercizio personale da tenere chiuso nel cassetto o, al massimo, da condividere con l’amica del cuore.
Che cosa, allora, mi ha persuasa a farlo nel giugno dell’anno duemila? Nulla di razionale se non uno stato di profondo malessere seguito a un lungo periodo di impegno per malattie in famiglia: e tutto è accaduto all’improvviso, senza che potessi opporre resistenza. Come sopra accennato, mi sono sentita un fiume in piena: per sei giorni, in uno stato non so dire se di trance o di beatitudine – la seconda è stata comunque la conseguenza – ho “espulso” una considerevole quantità di versi assecondando con il respiro una voce che arrivava da non so dove. E così mi sono sbloccata abbracciando la nuova compagna suggeritrice, sorella di sangue e pensiero. Forse, almeno in quei momenti, àncora di salvezza.
alibi
ho preso in affitto un alibi modesto un altrove piccolo monolocale monouso monodose. lo arrederò da subito con tanti pensieri ammucchiati in cantina, nei soppalchi di vecchie case, in garage, dentro la mia cinquecento del sessantacinque, negli armadietti di cucina, dietro l’oblò della lavabiancheria, nella ghiacciaia persino, poi farò una bella pulizia: di buon mattino toglierò polvere ragnatele foglie secche umidore residuo briciole stantie sospiri lacrimosi e desueti
lascerò un design di poche scarne parole…
sfoglio la memoria
sfoglio la memoria come petali di girasole per ritrovare una forza antica, l’eco di una voce che ristori dall’arsura e diverga dagli inciampi consueti dai vuoti quando incalzano a oscurare la linea del futuro. si nasce destinati alle intemperie agli umori del caso? eppure sappiamo arretrare sull’abisso assecondare battiti vibrazioni improvvise, capaci di distendere contratture e nodi gemmando pause inattese e felici come, camminando su certi sentieri nascosti, la fiammata improvvisa (tra i cespugli) di bacche autunnali
cinque
perché c’è sempre un luogo da cui partire e dove tornare anche in questo tempo matto con le vene in allerta e miraggi interiori per raggirarlo, sciogliere gesti, slegarli. ma ci vuole il vuoto: il vuoto è riposo sguardo possibile direzione visione da remoto dove l’obiettivo si assottiglia, dove si punta il centro, dove una partitura intesse e salda il fondo del pensiero. così cede la paura e può capitare (accade?) che, come una melodia a notte lontanando muore, converga col suo divagare verso il mistero, apra una pista inattesa.
basta un guizzo un innesco a sciogliere il passo sospeso a scovare il ritmo dell’essere insieme, di tenersi nello sguardo delle mani dove ciascun dito – pollice indice medio anulare mignolo – ha il coraggio di rischiare. sfogliare le pagine di un libro o un carciofo o l’ultima rosa che luccica nella brina. sistemare i mattoni attorno al ceppo del vecchio rosmarino, dargli ancora un’occasione mentre la lucertola indifferente si trascina sul muro di cinta.
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Nadia Maurizia Scappini, nata a Bagno di Romagna il 30 dicembre 1949, vive a Trento. Dopo l’insegnamento di discipline umanistiche nei Licei di Trieste e Trento, si occupa di promozione culturale, scrittura e critica. Collabora con l’Associazione A. Rosmini di Trento, con la pagina culturale di riviste nazionali, con il blog Bottega Portosepolto e con la rubrica QB per Independent poetry; cura, inoltre, per il Tquotidiano indipendente del Trentino Alto Adige una rubrica dedicata alla poesia. Presente sul sito di Italianpoetry, ha organizzato Convegni e Seminari di studio su Poesia e Mito nonché il Premio di poesia Città di Trento-oltre le mura 2018. Autrice di due romanzi, due saggi e un libro di racconti, per la poesia ha pubblicato Le parole del cuore stampa Mondadori 2003; La luna nuda, Travenbooks 2007; Il ruvido mistero, Ancora 2008; Un’ora perfetta, Aragno 2015; Come dire dell’amore, Moretti&Vitali 2019; La bilancia del cielo, traduzione in inglese, tedesco, spagnolo, russo, cinese del monologo in versi tratto dal romanzo minimo Sonia e il poeta (musicato dal Maestro Daniele Lutterotti per voce violino violoncello) Graphie/Il Vicolo, 2021; preghiere imperfette, Moretti&Vitali, 2022; presente in “Sesto repertorio di poesia italiana contemporanea”, Arcipelago Itaca, 2022; la plaquette Nu suntem singuri /Non siamo soli, Cosmopoli Bucarest, 2023; sul fianco del mattino, peQuod, collana Portosepolto, 2024 (testi musicati dal Maestro Armando Franceschini per pianoforte e viola). Numerosi i riconoscimenti nazionali. Nel marzo 2024 le è stato assegnato a Verona, a nome dell’Accademia mondiale della poesia, il Premio Catullo per la poesia italiana.