Più che un poeta dialettale è, per dirla con le parole di Pietro Russo, «un cantore epico come ne sono rimasti pochi nel panorama della poesia contemporanea». Parliamo di Nino De Vita, folgorante testimone animato da “sguardi” che riflettono compassione. Con Sulità, intenso poema (edizioni “Mesogea”) mosso dalla contenzione dei sentimenti, dal bisogno di dimenticare il proprio io nella carne esteriore, dalla percezione della solitudine. «Un libro nato dall’esigenza di scrivere dei tanti casi di solitudine a cui nella mia vita mi è capitato (ma un po’ a tutti penso) di assistere – dichiara De Vita -. Solitudini dolorose, come sono tutte le solitudini non accettate. L’uomo può scegliere liberamente di vivere nella solitudine, e in questa condizione può anche raggiungere una sua serenità, se non la pace, uno stato interiore di felicità. Ma esiste anche la solitudine che si patisce, che si è costretti a vivere. Io ho voluto rappresentare gli uomini che vivono questa seconda condizione. Il libro è composto di 24 racconti in versi. In ognuno di essi c’è un personaggio che vive una sua solitudine. E ci sono io che osservo, che converso con loro, che partecipo. Mi piacerebbe che il mio libro venisse considerato, oltre che un libro sulla solitudine, anche come un libro sulla pietà».
«Hannu tristizzi i libbra/ ch’unn’i putemu fari/ scenti,/ ddulura linzittusi./ Gnunìanu trisora, l’allisciati/ ri chiddu chi, calatu/ a pinzari, a nchiappari/ nne fogghi, sapi chi/ ci sunnu.» («Hanno tristezze i libri/ che non possiamo/capire/ dolori laceranti./ Nasconodono tesori, le carezze/ dell’uomo che chinato/ a pensare, a scrivere/ sui fogli, sa che /ci sono.»). I suoi versi schiudono una riflessione, la poesia di fronte al dolore del mondo non può tacere, essa resta, come già testimoniato da Leopardi, l’ultima illusione di salvezza per l’uomo, portando a un «accrescimento» di vitalità linguistica ma soprattutto sensoriale. La sua funzione riparatrice è sempre viva?
È sempre viva. Ma non domandiamo alla poesia quello che non può fare. La poesia ha dei limiti. Non può cambiare il mondo e le sue storture; può cambiare, questo sì, il cuore di chi ad essa si avvicina e di essa, passatemi l’espressione, si nutre. Ripara dal disastro e dall’abbrutimento l’uomo singolo più che le masse, perché sono sempre pochi quelli che si avvicinano alla poesia. E in questo caso la poesia non è proprio, come dice Leopardi, “l’ultima illusione di salvezza”, ma una salvezza concreta. Diciamola tutta: il cuore di chi “commercia” con la poesia, il cuore di chi la scrive, di chi la legge, di chi la ama, è un cuore che si fa sempre più sensibile e, non appaia banale, buono.
Qual è l’incarico (odierno) della poesia?
Quello di sempre. Di ricercare e di offrire – se il poeta ne è capace – versi che si avvicinano alla poesia, che la toccano. Di offrire dunque qualcosa che ha a che fare con la bellezza, ma anche con la verità. Potremmo dire che una buona poesia migliora di un tantino il mondo. Simile così a un’oncia di lievito madre che si espande e fermenta, contagia, una massa di pasta di pane.
La poesia, necessita più di ascoltare o di essere ascoltata?
Tutte e due le cose. Il poeta ha la necessita, si potrebbe dire il bisogno, di “ascoltare”, che significa poi la necessità di “osservare”. Il poeta sta sempre con le antenne tese: si rifà alla sua memoria, al ricordo di quanto accaduto, ai particolari, ma presta anche attenzione, e molta, al suo tempo presente, agli accadimenti della quotidianità. Una volta che i versi hanno trovato una loro compiutezza allora è come se il poeta si facesse da parte per fare in modo che la poesia da lui composta possa vivere una sua “libertà”, una sua autonomia. Da questo momento in poi la poesia ha la necessità di essere ascoltata – apprezzata ci si augura – da parte del lettore, da chi non l’aveva mai incontrata. E davanti a un nuovo lettore la poesia è sempre inedita.
Per Gottfried Benn la poesia è “ la domanda alla ricerca dell’Io”, per De Vita?
Sì, anche io, tutto sommato, la penso così. La poesia – direi l’arte in genere – ha a che fare, e fortemente, con l’Io. Diceva Caproni: “Il poeta è come un minatore: scava dentro di se, cerca, cerca, finché non trova un fondo, e questo fondo è comune a tutti gli uomini”. Come se il poeta scrivendo cercasse per se ma anche per gli altri, e dunque quando trova qualcosa, mettiamo una verità, una emozione, la trova anche per gli altri. E comunque: bisogna dire che esprimere una definizione di poesia, o di cosa sia la ricerca dell’Io, è davvero difficile. Quando mi succede di incontrare i ragazzi nelle scuole o quando rilascio una intervista io dico, come scherzando, e invece è una cosa seria: “Domandatemi quello che volete ma non chiedetemi una definizione di poesia perché non la so dare”.
Quando una poesia può dirsi compiuta?
Una poesia è compiuta quando il poeta è contento del lavoro fatto. Ma ci sarebbe da chiedersi: un poeta è mai contento del lavoro fatto? Il poeta vive una tensione che lo spinge a cercare la perfezione, una perfezione che nell’arte non esiste, o almeno per il poeta non esiste. Dunque il poeta è un uomo – io la penso così – sempre un po’ scontento. Ci sono svariati esempi di poeti che continuano a lavorare alle loro poesie anche dopo averle pubblicate, con varianti che si susseguono di libro in libro. Riporto un solo esempio: Leopardi, prima di morire, sul testo già stampato, cambiò il verso “Silvia ricordi” in “Silvia rimembri”. Che è poi, decisamente, più bello.
La forma quanto incide sull’essenzialità della parola poetica?
La forma è importante, essenziale, almeno per me che scrivo rispettando una metrica. Vero è che si può scrivere poesia adoperando versi liberi da ogni “costrizione” metrica. Ma per me non è così. Io ho bisogno che l’andare a capo abbia delle regole ben precise, nel mio caso è l’endecasillabo e il settenario a dominare. Sono convinto anche che da queste cadenze venga poi fuori la “musicalità”, forse anche la forza, dei versi e dunque di una poesia. Ma, ripeto: questo vale per me.
La parola poetica per preservare la propria efficacia comunicativa deve “esprimersi” usando il linguaggio del tempo in cui nasce e vive?
Credo che il poeta è in un certo senso “obbligato” ad usare il linguaggio del tempo in cui nasce e vive. Ma attenzione: può, con l’uso della memoria, scrivere in una lingua che non è più quella del tempo in cui sta scrivendo. E forse il mio è uno di questi casi. Io scrivo in un dialetto – meglio in una lingua – che non si parla più, che ho appreso da piccolo e che, scrivendo, mi ritrovo ad adoperare. Si capisce che, nel momento in cui mi appresto a tradurre queste parole “antiche”, per una maggiore comprensione del testo da parte del lettore, io usi, naturalmente, il linguaggio del mio tempo.
Quale (e per quali ragioni) poeta e relativi i versi non dovremmo mai dimenticare?
Tutti i poeti, se poeti sono stati, e che hanno toccato dunque la nostra sensibilità, sono da ricordare. Lo stesso vale con la prosa. E mi ritrovo a volte a considerare dell’interesse che provo per un autore, magari minore, e del rifiuto che invece provo per un altro autore, a tutti gli effetti maggiore. È un mistero, forse è un problema di affinità, di sensibilità particolari che agiscono in noi. Se mi è permessa, a tal proposito, una digressione. Sciascia non amava, pur considerandolo grande, Proust, e amava invece Stendhal; al contrario: Bufalino amava Proust e non amava Stendhal. Un giorno a Palermo mentre guidavo la macchina, mi sono ritrovato ad avere vicino Sciascia e seduto dietro Bufalino. Il discorso è caduto su Proust. Bufalino non riusciva a capacitarsi del fatto che Sciascia non lo amasse e cercava in tutti i modi di spiegargli la sua importanza, la sua grandezza. Sciascia ascoltava, non diceva niente. Di solito faceva così. A un certo punto Bufalino chiese, secco: “Ma tu Leonardo devi dirmi, anche con una semplice frase, perché non ami Proust”. E Sciascia rispose: “Perché è uno scrittore che ha la frase lunga e il pensiero corto”. Bufalino disse solo, come amareggiato: “A me sembra Leonardo che non sia così”. Chiusa la parentesi ritorniamo alla poesia. Ognuno di noi ha poeti che gli sono più cari, versi che sempre torna a visitare, che arriva perfino a imparare a memoria… A volte si ha lucidamente consapevolezza di cosa lega quei versi a noi e a volte no. A volte c’è bisogno di una lunga consuetudine con i versi di un poeta per capire che cosa ci lega a lui. Io, per esempio, ho un amore smisurato per la poesia di Cattafi. Un’opera poetica in cui si ritrova, nel suo svolgimento ( e l’ho compreso pian piano, con gli anni ), la storia di un uomo (dell’uomo Cattafi, della sua umanità) e nello stesso tempo la storia di un’anima.
Riporterebbe tre poesie dal suo “Sulità” per salutare i nostri lettori?
Lo faccio ben volentieri.
I LIBBRA
I libbra stannu fermi
ma rintra hannu una vita
ch’i macina: cci sunnu
’i cinchedda, i sbintati, i luparini;
i torti, i macanzisi;
alivoti cci sunnu ’i nannalau,
’i scarafuna, l’òmini squaquègnari,
’i ngazzati, l’eroi;
cci su’ nzivati tinti
nne cantunera bbianchi
ri fogghi, cc’è ’u silenziu,
cci su’ ncuttumi, i tuppulì ru cori…
I libbra stannu suli, comu chiddi
chi sunnu dispizziati, l’angariati,
stritti nne ligna, muti:
l’ùmidu ’i puntiddia,
nne vasciura scurusi, allippatizzi
ri muffa.
I libbra cci hannu ’a firi,
’i palori chi sarvanu.
Fannu pinzari, chiànciri,
nni fannu scaccaniari;
amici ncudduriati
ri chiddi nfarinati, ’i sularini.
Hannu tristizzi i libbra
ch’unn’i putemu fari
scenti,
ddulura linzittiusi.
Gnunìanu trisora, l’allisciati
ri chiddu chi, calatu
a pinzari, a nchiappari
nne fogghi, sapi chi
cci sunnu.
—
I LIBRI.
I libri stanno fermi/ ma dentro hanno una vita/ intensa: ci sono/ gli scapestrati, i libertini, i chiusi di carattere;/ i malvagi, i traditori;/ a volte ci sono gli stupidi,/ gli ingordi, gli uomini miseri,/ gli amanti, gli eroi;/ ci sono paure indicibili/ negli spazi bianchi/ dei fogli, c’è il silenzio,/ ci sono pene, i palpiti del cuore…// I libri stanno soli, come quelli/ che sono maltrattati, che vivono un sopruso,/ ristretti nei ripiani, muti:/ l’umido li macchia,/ nei posti bassi, oscuri, sporchi/ di muffa.// I libri hanno la fede,/ le parole che salvano./ Fanno pensare, piangere,/ ci fanno sbellicare dalle risa;/ amici intimi sono/ dei sapienti, dei solitari.// Hanno tristezze i libri/ che non possiamo/ capire,/ dolori laceranti./ Nascondono tesori, le carezze/ dell’uomo che chinato/ a pensare, a scrivere/ sui fogli, sa che/ ci sono.
*
DOMMIANU
Mi patruniava ’a fami
e circavu a me’ matri,
rrunguliusu; o vinia
idda a truvari a mmia,
cu ’na fedda ri pani
’n manu. Sempri una fedda
ri pani. “Teccà, mancia”.
Cci addumannai una vota tanticchiedda
ri cosa, chi nni sacciu,
r’accumpagnari ô pani,
pi calàrimi megghiu;
si nn’jiu, s’arricampau
cu ’na striscia, una sganga,
ri muddica. Mi rissi,
puennumilla “Teccà, è ’u cumpanaggiu.
È tumazzu, bbiscusu,
tènnaru comu ’a tumma”
’U taliai, ’u firriai.
Era comu ’a muddica.
Ma me’ matri m’avia
rittu ch’era tumazzu,
e ggheu accumpagnai
’u pani cu ’a muddica.
Muzzicavu
’u pani e pizzuliavu
’u tumazzu.
Me’ matri mi taliava.
Rissi “Mancialu a picca
a picca, vasinnò,
â sèntiri, t’accabba,
t’arresta sulu ’u pani”.
E ggheu accussia fici.
Ogni vota accussì
facia.
Ravu una muzzicata
nno pani e pizzuliavu,
ma a picca, ’u cumpanaggiu.
Una vota finiu pi primu ’u pani
e ’a chiamai. “Mi finiu
’u pani, o ma’, finiu”
nnamentri chi tinia
nna punta ri iritedda
dda nnicchia ri tumazzu.
Idda vinni e purtau
natra fedda ri pani,
cchiù nziccuta “Chi cci hai
’a lupa?” mi spiau.
Natra vota pi primu mi finiu
’u tumazzu, arristai
cu tanticchia ri pani
’n manu. Chiamai “O ma’,
finiu ’u cumpanaggiu”.
Chiamai e s’arrabbiau,
vinni nni mia cu ’a facci sbambuliata.
“Ti rissi, Dommianu, ri manciari
’u cumpanaggiu a picca
a picca”.
Si nni’jiu. S’arricampau
cu tantu ri muddica
ri pani e m’u puiu.
Una vota cci rissi “O mà, mi pari
chi stu tumazzu chi
mi runi cci havi ’u stissu
sapuri ra muddica
ru pani”.
Mi rissi “ Ma chi ddici,
’unn’i l’ha ddiri cchiù,
tu mancu l’ha pinzari,
Dommianu, tu m’ha crìriri,
m’ha crìriri Dommianu”
e, ’u vitti, cci nisceru
’i làcrimi ri l’occhi.
Vinia nni mia cu ’na fedda ri pani
nno ’na manu e ’a muddica
nne ìrita ri l’àvutra
manu. “Teccà” e puia.
Pi prima ’u pani, ddoppu
’u tumazzu.
—
DAMIANO.
Mi prendeva la fame/ e cercavo mia madre,/ lamentoso; o veniva/ lei a trovare me,/ con una fetta di pane/ in mano. Sempre una fetta/ di pane. “Tieni, mangia”./ Le domandai una volta un pochetto/ di cosa, che so,/ da accompagnare al pane,/ per scendere meglio;/ se ne andò, tornò/ con una striscia, un pezzetto,/ di mollica. Mi disse/ porgendolo “Tieni, è il companatico./ È formaggio, spugnoso,/ morbido come la tuma”./ Lo guardai, lo girai./ Era simile alla mollica./ Ma mia madre mi aveva/ detto che era formaggio,/ e io accompagnai/ il pane alla mollica./ Mordevo/ il pane e pizzicavo/ il formaggio./ Mia madre mi guardava./ Disse “Mangialo a poco/ a poco, se no,/ io ti avverto, finisce,/ ti resta solo il pane”./ E io così feci./ Ogni volta così/ facevo./ Davo un morso/ al pane e pizzicavo,/ ma poco poco, il companatico./ Una volta finì per prima il pane/ e la chiamai “ Mi è finito/ il pane, o ma’, è finito”/ mentre tenevo/ nella punta dei ditini/ quel poco di formaggio./ Lei venne e portò/ un’altra fetta di pane,/ più sottile “E che sei/ affamato?” disse./ Un’altra volta per prima finì/ il formaggio, rimasi/ con un poco di pane/ in mano. Chiamai “O ma’,/ è finito il companatico”./ Chiamai e si arrabbiò,/ venne da me con la faccia accalorata./ “Ti ho detto, Damiano, di mangiare/ il companatico a poco/ a poco”./ Se ne andò. Ritornò/ con un tantino di mollica/ di pane e me lo porse./ Una volta le dissi “O mà, a me sembra/ che questo formaggio che/ mi dai ha lo stesso/ sapore della mollica/ del pane”./ Mi disse “Ma che dici,/ non devi dirlo più,/ tu neanche lo devi pensare,/ Damiano, tu mi devi credere,/ mi devi credere Damiano”/ e, lo vidi, le uscirono/ le lacrime dagli occhi.// Veniva da me con una fetta di pane/ in una mano e la mollica/ nelle dita dell’altra/ mano. “Tieni” e me li porgeva./ Per prima il pane, dopo/ il formaggio.
*
RRUSULIA
“Ti purtai Rrusulia
stu mazzettu ri ciuri.
Sunnu pi ll’anni toi”.
“Ogni annu raccussì.
E vviremma nne festi
ranni, ri mia ’un ti scordi
mai…”
“Ti fa piaciri, ’u sacciu, chi ti vegnu
a truvari”.
“Certu, mi fa piaciri.
Cu sta cca rintra, comu
a mmia, castiata, senza
ri nuddu, sti pinzera
assai su’ bbenaccetti”.
“ ’U sacciu. Chissu ’u sacciu”.
“E ammeci tu ’unn’u sai,
sti cosi ’unn’i canusci”.
“Àvutri st’jornu ti
pinzaru, Rrusulia?”
“Nonzi, tu sulu. E criu
chi finisci accussì,
picchì oramai si fici
sira…”
“E dda fìmmina, ’a vecchia
chi sta cu ttia nna stanzia?”
“ ’Un sapi nenti, nenti,
chi fazzu l’anni; e mancu eu cci ’u potti
riri.
Mmiolu ’un ci nn’havi cchiù,
chianci, si fa ri ncapu.
Vucia ri notti comu
una persa…
Cci l’havi un figghiu, ma
chissu ’un cci veni mai
a truvalla. Vinissi,
è ’a nora ch’unn’u fa
bbèniri…
’U sai chi cc’è una cosa
chi mai t’â ddumannatu?
Mancu ora t’â ricu.
Ma sta ddumanna eu
un gghiornu ti l’â ffari.
M’â ddiri tu picchì
mi veni cca a truvari…
’U sai picchì ’un t’ha fazzu?”
“Picchini Rrusulia?”
“Picchì sugnu sicura ri sapillu”.
“Rrispunni annunca tu
pi mmia, ô postu meu”.
“E tu ’un nnici sì
a chissu, ’un nnici no”.
“E ggheu ’un nnicu nenti”.
Avvicinau, abbuccannu, Rrusulia
’a vucca nnall’oricchia, pi parlari,
araciu.
—
ROSALIA.
“Ti ho portato Rosalia/ questo mazzetto di fiori./ Sono per il tuo compleanno”./ “Ogni anno così./ E pure nelle feste/ grandi, di me non ti scordi/ mai…”/ “Ti fa piacere, lo so, che ti vengo/ a trovare”./ “Certo, mi fa piacere./ Chi sta qui dentro, come/ me, costretta, senza/ una famiglia, assai questi pensieri/ sono graditi”./ “Lo so. Questo lo so”./ “E invece non lo sai,/ queste cose non le conosci”./ “Altri oggi si/ sono ricordati di te, Rosalia?”/ “No, tu solo. E credo/ che finisce così,/ perché oramai si è fatta/ sera…”/ “E quella donna, la vecchia/ che sta con te nella stanza?”/ “Non sa niente, niente,/ che compio gli anni; e neanche gliel’ho potuto/ dire./ Memoria non ne ha più,/ piange, si fa addosso./ Grida di notte, come una/ spostata…/ Ce l’ha un figlio, ma/ questo non viene mai/ a trovarla. Lui verrebbe,/ è la nuora che non lo fa/ venire…/ Lo sai che c’è una cosa/ che mai ti ho domandato?/ Neanche ora te la chiedo./ Ma questa domanda io/ un giorno te la devo fare./ Mi devi dire perché/ tu vieni qui a trovarmi…/ Lo sai perché non te la faccio?”./ “Perché Rosalia?”/ “Perché sono sicura di saperlo”./ “Rispondi allora tu/ per me, al posto mio”./ “E tu non dirai sì/ a questo, non dirai no”./ “E io non dirò niente”./ Avvicinò, accostandosi, Rosalia/ la bocca al mio orecchio, per parlare,/ piano.
(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 22.09.2018, pagina Cultura).