“Radice per sentire una terra che è madre, narice per esserne amante”, Lina Maria Ugolini, e il suo “narice dice radice”.

«Ciò che vede il passo/ ha occhio di radice/ il piede aderisce alla terra/ si nutre d’arcano/ senza che nessuno lo sappia». Della catanese Lina Maria Ugolini (figlia e nipote d’arte, scrittrice, poetessa, contafiabe e musicologa; forgiatrice di linguaggi e forme, ha pubblicato numerosi libri tra romanzi, manuali, poesia e saggi di carattere creativo), versi (in apertura) scelti per introdurre la lettura del nuovo “rizomatoso” libro, “Narice dice radice”, pubblicato da “Akkuaria”, nella collana di poesia contemporanea, “Lo specchio di Akkuaria”, diretta da Vera Ambra, prefato da Grazia Maria Scardaci. Versi come rifioriture evocative, come alberi saldi alle proprie radici, come sguardi bisognosi di rifugi, come orizzonti di luce (e preghiera) nella forza del giorno, come armonioso «incanto di una musica», come passi consapevoli dentro prolungate atmosfere immaginative, come l’ardore del pensiero che non si trattiene («risale la corrente»), come allunghi sul tempo che «dondola», dallo stupore dell’infanzia («saltare/ credere di toccare il tetto con un dito»), al prezioso presente («nell’atto di dare nome alle cose»).

“narice dice radice”, titolo in odor proustiano, cosa sottende? 

Sottende un dialogo segreto, un travaso di linfa emotiva che si trasforma in memoria. Narice e Radice. Le due parole, uguali nel conto delle sillabe, formano la figura retorica di una particolare paronomasia al servizio di due condotti biunivoci, nel momento in cui ciò che percepisce la narice sedimenta una radice, ciò che la radice assorbe si trasforma in polmone nutrito di fragranze che olezzano tra i versi. Radice per sentire una terra che è madre, narice per esserne amante.

Cosa può la poesia perché “possa il mondo perdonare”?

Difficile rispondere a questa domanda in un momento così terribile per il mondo afflitto dalla violenza delle guerre, come scriveva Vittorini, un «mondo offeso». La poesia perdona nel momento in cui ogni sua parola, inquieta e viva, si fa preghiera per l’Umano.

Ancora i tuoi versi, per chiedere: “Giova la margherita/ al canto domenicale dei poeti”?

La margherita è un fiore semplice, a una margherita si chiede a volte il responso di un amore: M’ama non m’ama… e intanto si recide un petalo dalla corolla. Ogni distacco è pena sottile, atto che rappresenta l’essere poeti nel quotidiano. Il canto appartiene leopardianamente al «dì di festa», a un fiore intatto di prato.

La poesia può sciogliere “Incertezze nell’incerto vivere dei giorni”?

No. La poesia è incerta più dell’incertezza stessa. Indispensabile a ogni domanda irrisolta dell’uomo in quanto anelito d’infinito.

La poesia è il tuo modo di “stare” nel mondo, qual è stato il primo indimenticabile passo?

Prendere in mano una penna. La mano era quella di una bambina di 7 anni. Ricordo queste parole scritte dietro la tenda di una finestra, seduta per terra, sopra un cuscino: «In questo quaderno deposito la mia poesia/la vita, le malinconie che mi spingono a fare questo: il poeta. Di certo non posseggo niente/la gente ignora la mia esistenza.»

E, ancora, ad oggi, dove sei stata condotta dalla poesia e qual è stato l’insegnamento cardine?

La poesia vive con me, riceve rughe, affanni, stupori. È valigia, cassetto, gemma e seme. Ritmo di passo e musica. L’insegnamento più grande arriva dall’umiltà della zolla, dall’inchinarsi come un filo d’erba al giogo del vento senza mai spezzarsi.

Per concludere salutando i nostri lettori, ti invito a scegliere tre poesie dal tuo libro – (chiedo gentilmente di riportale) – e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che le ha viste nascere.

Questa raccolta è legata a un oblio e a un nuovo germoglio. Ho vissuto una triste esperienza con un editore di Latina che con poca professionalità ha reciso il contratto di edizione del libro dopo averne avviato l’uscita. Con mia grande gioia è rifiorito per Akkuaria con un titolo che vibra, emana nuove fragranze da annusare e cantare, germogliare e attecchire in nuova terra grazie alla sensibilità indomita di Vera Ambra e alla preziosa lettura di Grazia Maria Scardaci.

Ho subito organizzato la scrittura in tre sezioni: Miti d’infanzia, Visioni di terra e Narice Radice, per una parola poetica volta a scavare filamenti sotterranei innestati a rivelazioni olfattive, a sensazioni rizomatose che sconfinano nel racconto fantastico, nel bisogno di dare forma a una memoria evocativa che dall’infanzia (prima sezione della raccolta) giunge a toccare il presente per collocarlo in spazi vergini e pluviali, necessari al rigoglio di ciò che germoglia o marcisce per rinascere allo stupore della scoperta, alla percezione viva di archetipi da catturare nel puro immaginario.

Narice e radice
unite per comunione
di vocali e consonanti
filamenti d’una comune cavità
d’olfatto umano
di respiro terrestre.

La zolla vi protegge
nel nutrire ciò che s’assorbe
cavo l’oscuro condotto
conduce a cogliere
ogni fragranza di germoglio.

Il naso è proteso
che sia volto, tronco o stelo
adorno di chioma
nido di capelli per le uova
deposte dalle ali dei pensieri.

Odora e conosci
narice
penetra e ama
radice.

*

Il Re dei fiumi

Lo chiamano il Re dei Fiumi
perché l’acqua vi tesse un manto
in trecce di canali che vanno per valli.

Guerre antiche hanno tinto il suo cuore
sciolto gocce di sangue in sorgenti di smeraldo
nascoste dall’ombra tremula dei tigli.

Salta il pesce ardito
artista solitario risale la corrente in un guizzo d’argento.
È il giullare del Re
se il fiume sorride si trasforma in fanciulla vestita di neve
tra i capelli una corona di stelle alpine.

La fanciulla è la Principessa dei torrenti
scappa e scivola tra i sassi
canta in fili di brina
serenate alle montagne.

*

La barca lascia l’ormeggio
scivola arando l’acqua.
Un treno segue i binari
impossibile deviare un cammino
a parte assecondare uno scambio
chiudere una cerniera tra i Continenti
così che gli uomini si ritrovino
sopra un lungo abbraccio.

Il Pianeta respira con narici golose di vento
al vento una mano s’arrende
come foglia, come figlia.

Non saremo mai soli davanti a un pianoforte
pachiderma di terra
cetaceo d’accordi in amore
memoria dell’abisso come della luce
del vetro, dell’alga, del catrame.

La musica dona e riceve l’abbandono
ogni titubanza, incertezza
in trillo, in arabesco.
La musica saprà cardare
i capelli di Gaia Fanciulla
in tessuto per coltri di sogno.

Dormono i figli di Epimeteo
sul cuscino della Speranza.

Lina Maria Ugolini (Catania, 1963). Figlia e nipote d’arte è scrittrice, poetessa, contafiabe e musicologa. Forgiatrice di linguaggi e forme, ha pubblicato numerosi libri tra romanzi, manuali, poesia e saggi di carattere creativo per vari editori tra cui rueBallu (premio Andersen 2016), Gremese, Ensemble, Splēn, Villaggio Maori, Siké, Giazira, Ensemble, Kalòs, Saecula, Edizioni del Foglio Clandestino, Akkuaria.
Lavora con importanti compositori italiani per i quali scrive libretti di teatro musicale e testi poetici per arie e songs. Ha curato numerosi progetti di scrittura, didattici e di divulgazione musicale. Collabora con il Teatro Massimo Bellini, la Camerata Polifonica Siciliana, Musica Insieme a Librino, Cartura, Marionettistica Fratelli Napoli, Piccolo Teatro della Città, Compagnia GoDoT.
È docente titolare di Analisi delle forme poetiche (nonché autrice del rispettivo manuale), Storia del teatro musicale e Drammaturgia musicale al Conservatorio “Vincenzo Bellini” di Catania. Ha insegnato al Conservatorio “Umberto Giordano” di Foggia sez. Rodi Garganico, al Conservatorio “Antonio Vivaldi” di Alessandria. Ha al suo attivo numerosi testi andati in scena e performance poetiche per voce e musica. Tutta la sua attività e i suoi libri sul sito www.linamariaugolini.it

 

(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 05.11.2023, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

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