Rossella Caleca “La stagione accanto”, poesia che “scioglie” le cesure tra le stagioni.

“tre domande, tre poesie

 

Il libro è diviso in tre sezioni, la prima, “Dialoghi in assenza”, indica delle mancanze, dei vuoti che si percepiscono e pesano, di persone care scomparse (“1919”, “Antenati”), di interlocutori che prendono rilevanza in colloqui sul fare del giorno e la cui instabile permanenza è segnata dal «muro di vetro», trasparente, dell’apparenza (“Mattino”) […] In questa sezione trovano luogo anche temi sociali urgenti e drammatici della nostra contemporaneità come le tragedie dei migranti nel Mediterraneo nella poesia “Altromare“, i femminicidi ripetuti in “Altre passanti”, o le persone con disagio psichico in “I santi”. […] Sono tutte tematiche che si scontrano con la parola, mostrano una difficoltà nella espressione comune non superficiale, una forma di non detto o difficile a dirsi che scava percorsi sotterranei perché si confronta con una realtà di sofferenza che attraversa le relazioni umane e pesa sulla coscienza di chi è capace di osservarla. […]
La seconda sezione, “Guardando l’età passare”, sembra una esplorazione dei nessi che intercorrono tra passato e presente nella vita quotidiana, quel tempo/non tempo che avvolge ogni presente immediato che pare esaurirsi nelle azioni che si compiono come in una routine, nella frenesia delle urgenze incalzanti, nella normalità di cui non sempre si è in grado di leggere lo spessore e la continuità. Sono poesie scritte in tempi diversi che mettono in luce cambiamenti personali, quasi una osservazione piuttosto solitaria della evoluzione dei propri sentimenti «ciascuno per sé la lasciavamo/ andare» (“Baby sitting”), un confronto con la memoria privata di una donna che si guarda allo specchio leggendo il suo passato «alla giusta distanza». […]
La parte finale, “Estuario minimo”, contiene le poesie più recenti, o rimaneggiate nel tempo, in cui prende forma lo spazio, il paesaggio della vita consumata, l’acqua, la sabbia, il cielo terso, i luoghi di Sicilia con il mare, il vento e soprattutto la luce che penetra negli spazi più reconditi e si fa largo nelle penombre. […] La poesia che racchiude una metafora della domanda di senso sembra essere “La stanza”, in cui, sulle tracce di Virginia Woolf, l’autrice si chiede: «Avrò per me una stanza/ senza il mare», come un luogo di ripensamento, di ricerca di una dimensione di bilanciamento, di calma e silenzio, come se il mare fosse un condensato del tumulto dell’animo che scuote e inquieta, e la domanda di equilibrio una ricerca di misura, di autocontrollo, «lo chiudevo segnando confini/ al mattino». In questo spazio bianco di riflessione l’autrice, «donna terrana», ascolta quello che è diventato un «mite disordine di voci», e impara «ad aprire il respiro/ fidando nel naufragio». Una nuova fiducia si apre proprio nel naufragio, potente metafora del lasciarsi andare, non nella dispersione che annulla ma nella consapevolezza dell’età adulta, che, come ho indicato all’inizio, scopre nella rinnovata relazione con le amiche sagaci una fonte importante di sostegno e di equilibrio. E il mare torna a essere spazio di libertà e non di disordine.
Anche l’immagine di copertina rafforza queste indicazioni, con la bambina sul vano della finestra, la tenda chiara che la ripara dalla luce, accanto a uno spicchio di mare calmo lontano dalla stanza, sembra rimandare a una immagine di tranquillità e autoriflessione. Una bambina alter ego che osserva la stessa autrice e ne diviene specchio temporale, come lo stare accanto al mare, luogo di esperienza interiore forte e impetuosa che si trasforma in scrittura, praticata nel tempo in dimensione privata come spazio parallelo e forse un po’ nascosto, e solo ora emersa finalmente a pubblicazione, alla visibilità di tutti: il rinvenimento di una liberazione intima, l’autorizzazione aperta alla propria personale inventiva, sciolta infine da remore o esitazioni, quel naufragio rassicurante e liberatorio. È una scrittura che rispecchia l’esperienza dell’autrice e insieme diviene metafora di una condizione femminile ancora diffusa soprattutto tra le donne adulte: come colmare la distanza tra desiderio e vita vissuta.

(dalla prefazione di Gabriella Musetti al libro La stagione accanto)

In che modo la (tua) vita diventa linguaggio, qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “La stagione accanto”?

Questo libro raccoglie poesie che ho scritto in tempi diversi, in spazi interstiziali tra i movimenti della vita in cui la ricerca di senso per ciò che accade fuori e dentro di noi, che coinvolge tutti, per me è affiorata condensandosi in parole che sono in realtà domande. Di questo dice molto sia il titolo che l’immagine di copertina, che riproduce un’opera di una pittrice siciliana della prima metà del secolo scorso: una bambina è sul vano di una finestra, “accanto” al mare e al cielo luminoso, all’ombra di una tenda: e lo scrivere, che pratico da molti anni ma con discontinuità, è per me una pulsione che è stata vissuta “accanto”, come in un’altra dimensione, o un’altra stagione, a poca distanza ma separata dalle vicende incalzanti della vita pratica, quotidiana; una dimensione intima, nascosta, che solo di recente mi sono “consentita” di portare alla luce. Il libro è diviso in sezioni, che corrispondono a diversi “momenti” interiori. Nella prima i testi dialogano con persone che non ci sono più o rispecchiano il “non detto” in relazioni affettive esistenti e il confronto con la sofferenza, parte dell’indicibile che intesse le interazioni umane. La seconda sezione è nutrita dalla memoria, è più un’esplorazione di me stessa, dei cambiamenti che ho attraversato e dell’evoluzione dei sentimenti. Nella terza sezione sono comprese poesie scritte più recentemente in cui i luoghi di vita, il paesaggio, sono pretesto e metafora di stati d’animo, le relazioni si trasfigurano, e si svelano spazi liberi e vie di fuga. Strada facendo, mentre scrivevo e riscrivevo, le cesure tra le stagioni si sono sciolte.

Riporteresti una poesia (di altro autore) nel quale all’occorrenza ami rifugiarti, rivelandoci cosa “muove” la tua “preferenza”?

Primavera ben presto
sarà tra noi; le sere
s’allungheranno tiepide e una grande
luce vedrai
nelle finestre limpide fiammare.
Barche andranno nel lieve scintillio
dei remi sopra l’acqua
morbide; e qua cantare
sentirai, nella piazza alta i fanciulli
grideranno. Stupore
ti prenderà, mio cuore.
Io starò sopra questo
tenero davanzale, e lenta arcana
mi tornerà memoria
d’altre sere, e la storia
grande vedrò, smarrita come il mare.
Questa la primavera? E i miei capelli
già lievemente splendono al soave
tocco del tempo, e il viso
già i segni porta, mesti, di bufera.
Presto la luna splenderà frattanto
sopra l’onde serene,
rivelando le barche e una strada
dorata in mezzo del celeste mare.
E tu più forte udrai
al ballo i passi delle giovanette,
dentro le buie camere da festa
travolte, e più gridare
con i fanciulli sentirai le rondini.
Tu starai sola in casa, e la memoria
ti assalirà, dipinta di stupore,
d’altre sere beate.
Che tempo fu? Che strano
paradiso mai quello?
Ricorderai tu, lenta,
mentre la festa aumenta e nelle case
scopre la luna il viso alle fanciulle,
i suoi labili accenti,
gli occhi che ti miravano contenti.
Strana bene è la vita,
reprimendo i lamenti,
e mirando la gran festa, dirai.
E un po’ sarai turbata, quella sera
che già s’accosta, della primavera.

Si tratta di una poesia di Anna Maria Ortese, senza titolo, contenuta nel libro “Il porto di Toledo”, un testo scritto in prosa e in versi, che “non è (…) una storia vera, non è un’autobiografia, è rivolta e “reato” davanti alla pianificazione umana” nel quale l’autrice inventa “una me stessa che voleva un’aggiunta al mondo(…) che vedeva, nella normalità, solo menzogna.”. Ortese è una scrittrice che amo molto; io ho studiato il perturbante della follia, anche in autrici, italiane e straniere, che hanno trasfigurato nel linguaggio poetico “l’alterità” psichica e corporea che dà la possibilità di esperire, ed esprimere, nuovi legami col mondo. Ortese è, secondo me, capace di esprimere in massimo grado il “perturbante” proprio nell’accezione originaria di unheimlich, ciò che è al tempo stesso familiare e straniero; e in questa poesia io ritrovo opposti perturbanti che mi appartengono, tra memoria e presente, ma anche, stranamente, conforto e abbraccio nella verità del tempo che passa.

Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a riportare tre poesie dal tuo libro, “La stagione accanto”; di queste scegline una per condurci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

Tracce

Se avessi una figlia ora
la chiamerei
Eleonora
memoria di un coraggio teso e liscio
che a me non cresce.
Se avessi una figlia ora
con lei farei
tardi
e lascerei andare il giorno
senza cercarlo.
Restano tracce
di vecchi graffi
sulla gola
e una figlia Eleonora
dispersa nel corpo.

Uscita di sicurezza

Tira fuori il gatto dalla guancia
escilo dalla bocca, posalo
offeso e scarruffato, sul divano
lasciagli accanto l’inverno, di sera
col tesoro incompiuto delle foglie
di tè, e quattro tazze ben disposte
in delicata attesa.
Poi, come il giorno riempirà
gli occhi, aprendo le imposte
bisognerà voltarsi a guardare
chi hai d’intorno
e misurare il ritorno
a tutto ciò che tuo non è.

Quattro quarti

I – Divisione

Infissa al fondo come un’alga
che teme di arenarsi disseccata
è quella che non ha imparato
mai a nuotare. Ve l’ha data a bere
invece non sa. Lascia la corrente
scivolare, attende di staccarsi
– non ancora – smaglia opere nere
distratta e renitente.

II – Addizione

Si fanno castelli con puntiglio
caparbio – si sciolgono piccole
storie arruffate senza verbi
in fondo, sciamano minuti
leggeri tra schizzi, puliti
e bianchi come gigli di mare
nati adesso dalla sabbia.

III – Sottrazione

Riscrive tutto la dimenticanza.
Non in attesa né in fuga
saremmo stati, camminando accanto
alla spiaggia, in un tempo impreciso
andando nell’aria salata
senza bagaglio, dove la luce
non è cattiva e non pesa.

IV – Moltiplicazione

Tagliamo l’acqua con mani squamate
ma dalle smagliature, noncuranti
sgusciano gioventù inventate.
Più tardi, all’estuario minimo
studiato per singolarità
si aggiungeranno amiche sagaci
a salvarmi dal peso della sabbia.

Scelgo la poesia “Quattro quarti” per parlare del percorso che ha condotto alla sua nascita. È una delle ultime poesie che ho scritto, ma raccoglie anche frammenti, schizzi precedenti, poi rielaborati. Questa, come anche un’altra poesia, “La stanza”, è stata quindi scritta e riscritta negli anni, ed è imbevuta di mare: un mare che potrebbe essere il riflesso di un’interiorità caotica, fatta di pulsioni e di passioni, che ho cercato di controllare per non esserne travolta; ma oggi quel mare si fa parole che chiedono di essere espresse. In questa poesia si rispecchia, del mare, un vissuto diverso per diversi tempi della vita, e di questi, scanditi come tempo musicale, si fa metafora. Da questi versi emerge una delle tante rivelazioni che la parola poetica mi ha dato, come cioè la natura e il paesaggio vivano in me assai più di quanto credevo, e si condensino in “luoghi” che sono eventi, secondo una definizione che mi piace, “qualcosa che accade quando le persone si incontrano”. Mi è cara poi questa poesia perché riflette con più evidenza anche un primo percorso di ricerca stilistica, un tentativo di trovare una voce mia.

*

Rossella Caleca (in copertina nella foto di Maurizio Scasso) – Nota biografica 

Sono Rossella Caleca, Maria Rosa all’anagrafe, vivo in provincia di Palermo e lavoro come  sociologa  in un  Centro Salute Mentale dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Palermo, occupandomi  prevalentemente di  progetti per l’inclusione sociale di persone con disagio psichico e della promozione della salute mentale di comunità. Le tematiche di genere sono, anche nell’ambito del mio lavoro, tra i miei  interessi principali, in particolare ciò che attiene a marginalità, disagio e  disabilità psichica delle donne; ho realizzato, come autrice o coautrice, diversi studi e ricerche, tra cui uno studio su forme di disturbi psichici correlate alle condizioni di vita tra le utenti di un CSM, un saggio sul disagio psichico femminile,  una ricerca su  madri e figlie nella migrazione, una ricerca sulle geografie del disagio psichico a Palermo, dai luoghi dell’esclusione a quelli di interazione. Mi sono occupata di figure di donne, scrittrici o artiste, che hanno vissuto forme di sofferenza psichica, studiando in particolare l’opera della poeta Maria Fuxa. Sono stata collaboratrice delle riviste Mezzocielo e  Mezzocielo web, e faccio parte dell’Associazione “Archivia-donne in relazione”. Sono socia da diversi anni  della Società Italiana delle Letterate (SIL);  di quest’ultima sono stata recentemente eletta componente del Consiglio Direttivo. Alcuni anni fa ho conseguito una seconda laurea specialistica in Studi Storici, Antropologici  e Geografici Presso l’Università di Palermo e ho appena concluso un Master in Studi e Politiche di genere presso l’Università di Roma Tre, con un elaborato finale dal titolo Le Perturbanti. Parole dal groviglio, sulle tracce di Alda Merini, Amelia Rosselli, Maria Fuxa.  Come si può notare, sono affascinata dalle figure di donne irregolari, eccentriche, “disturbanti”; amo inoltre particolarmente il fantastico e la fantascienza in letteratura. Scrivo da molto tempo poesie, e da qualche  anno  racconti; alcuni  di essi sono stati pubblicati sulle riviste Marea, Mastro Pulce, Mezzocielo, sul sito web  IAPH Italia, e nei volumi collettanei Le personagge sono voci interiori, edito da Vita Activa, e  La speranza è una  strana invenzione, per Vita Activa Nuova. Un mio racconto ha conseguito il primo premio nella V edizione del concorso letterario “Elca Ruzzier. Una donna da non dimenticare” ed è stato pubbicato, con gli altri racconti selezionati, nel volume Prisma di frammenti. Storie di donne edito nel 2021 da Vita Activa. Sempre nel 2021 ho pubblicato per Samuele Editore la silloge  La stagione accanto, che è il mio primo libro in versi.                

 

 

Potrebbero interessarti