Santo Privitera e “L’eterni amanti di petra e altre storie in versi”, pubblicato da “Algra”.

«Lu furasteru ‘n menzu a dda natura/ senti lu scantu ma non si nni cura./ “Subblimi” dici “ju non lu cridìa/ cca c’è la linfa di la puisia!!/ Cchi nùuli, Chi russi tramunti…Catania/ Tu si ‘na malìa!!». Versi scelti dal nuovo originale libro di Santo Privitera, “L’eterni amanti di petra e altre storie in versi”, pubblicato da “Algra”, nella collana “Saccurafa”, diretta da Alfio Patti. Otto pometti dotti in versi dialettali (arricchiti da una fedele traduzione in lingua italiana), riportano in vita antiche storie condite da guizzi brillanti e incuriosenti: “’U Visconti fimmininu”, “Quann’è ca Goethe visitò ‘u Vulcanu”, “Dusmet, Rapisardi e l’opera da incendiare”, “Lu gran Conti Cabbrera e Jana ‘a giustiziera”, “’A statula da virità”, “Paulu ‘u pirata catanisi”, “’I Manninu”, “L’eterni amanti di petra”. Privitera, come scrive Renato Pennisi nella deliziosa prefazione, “non dimentica il passato, i fatti attinti da una memoria antica e curiosa, né perde di vista episodi collegati con il nostro presente. Per questo, a mio parere, troviamo trasfusi elementi generosamente mutuati dalla tradizione popolare in un tessuto linguistico che invece è attuale. Va da subito posta in evidenza la gioia del narrare, il tono a volte scanzonato, sempre agile di questi testi”.

Partiamo dal titolo, l’eterni amanti di petra, cosa sottende? Qual è il messaggio cardine che desideri venga colto dal lettore?

È il titolo del poemetto che conclude il libro. Mi ha affascinato l’immagine degli scogli esistenti al lungomare, nei pressi di piazza Nettuno. Sembrano baciarsi appassionatamente. Sono lì dal 1381, anno dell’eruzione lavica che cancellò l’antico porto Ulisse. L’amore, quando è amore vive per sempre. La separazione ha spesso il volto ingannevole del destino. Ciò che la vita ti toglie, la natura finisce per restituirtelo sia pure a futura memoria. Proprio come è successo ai due protagonisti di questa storia.

Questo libro, come chiarito anche dalla prefazione di Renato Pennisi, è un’importante operazione di “recupero” su più fronti (storici, letterari…)? Come nasce l’idea per i lettori che non hanno letto la tua nota introduttiva?

La nota di Renato Pennisi ha colto nel segno. È sì un lavoro storico, letterario; ma è anche cronaca. Alcuni dialoghi, anche se di fantasia, sono serviti ad arricchire la narrazione. Linguisticamente non ho utilizzato un metro univoco; ho preferito accoppiare alle rime il verso libero. Un “esperimento letterario” che spero possa risultare gradito ai lettori.

Cosa può la poesia “contro” la “pensosa” solitudine del poeta? E, cosa può destare la coscienza più che sopita dal livellamento cui le nostre esistenze sono minutamente “ridotte”?

Il poeta, per non chiudersi in sé stesso, deve uscire dal “guscio” della solitudine. Per farlo, deve affrontare il mondo a viso aperto. Deve mostrarsi meno intellettuale e più concreto. A mio avviso, nulla è banale in questa vita, anche se vi sono essenze molto più intense delle altre. Queste vanno cercate e colte. Lo so, non è facile; ma la ricerca stimola più di ogni altra cosa l’intuizione. 

Qual è oggigiorno il (primo) dovere critico della poesia?

Non lasciarsi cogliere impreparati di fronte all’avanzare del cosiddetto “pensiero unico”. Nel nome di una presunta innovazione, è in corso un vero e proprio tentativo di abbattere la storia della letteratura mondiale ed i suoi autori. La poesia, in particolare, potrebbe perdere la specificità universale del suo linguaggio che per definizione è sinonimo di libertà. Sarebbe un vero disastro.

“L’amuri quannu appigghia ‘nda lu cori/ svampa lu ventu e nun lu poi astutari”, con i tuoi versi per chiederti in che modo e quando è nato il tuo “amore” per la poesia? C’è un ricordo, un aneddoto che vuoi raccontare?

In famiglia abbiamo sempre avuto come punto di riferimento le antiche tradizioni. La mia prima poesia risale all’età di 10 anni. “Puisia ‘a ‘na crapa di palazzu”, questo il titolo. Mio padre mi regalò una capretta in carne ed ossa. Vivevamo in un condominio. Non sapendo dove alloggiarla, la mettemmo su in terrazza. Mi colpì la insolita scena di questo animale fatto salire in ascensore. Era “comprensibilmente” spaesato. Poi mi affascinò la silloge pubblicata nel 1976 da mio fratello Luccio, ottimo poeta purtroppo scomparso recentemente in circostanze drammatiche alla scogliera.

Tradurrebbe per i nostri lettori, e così salutandoli, i versi in apertura del nostro articolo? 

Lu furasteru ‘n menzu a dda natura/ senti lu scantu ma non si nni cura./ “Subblimi” dici “ju non lu cridìa/ cca c’è la linfa di la puisia!!/ Cchi nùuli, Chi russi tramunti…Catania/ Tu si ‘na malìa!!/ Tradotto: Il forestiero immerso in quella natura/ avverte la paura ma non se ne preoccupa./ “Sublime” dice “io non lo credevo/ qui c’è la linfa della poesia!!/ che nuvole, che rossi tramonti…Catania/ Tu sei un incanto!!/ (dal capitolo: Quann’è ca Goethe visitò ‘u Vulcanu).

 

 

(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA dell’11.11.2023, pagina Cultura).

 

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