Sergio D’Angelo, classe 1969, è nato a Ragusa e risiede a Chiaramonte Gulfi (RG). Ha pubblicato alcune sillogi poeti-che, il cui ricavato è sempre stato devoluto in beneficenza: 2013: Angoli Introversi (Fondazione Epilessia Lice Onlus); 2012: Chiaroscuri (Convento Santa Maria di Gesù, Ordine dei Frati Minori di Chiaramonte Gulfi); 2009: L’amore che tutto infiamma (Dipartimento di Pedia-tria Clinica di Oncoematologia Pediatrica, sede di Padova); 2007: Gocce di Luce (Associazione Casa Famiglia Rosetta di Ragusa); 2006: L’anima mia tra le stelle (Associazione Papa Giovan-ni XXIII, progetto Onlus “Ragazzi di strada Zambia”); 2005: La voce del vento (Associazione Papa Giovanni XXIII, progetto Onlus “Ragazzi di strada Zambia”). Dal 2009 è promotore e direttore artistico del Concorso Na-zionale di Poesia ‘Chiaramonte Gulfi – Città dei Musei’. Ha ottenuto premi e riconoscimenti in numerosi concorsi su tutto il territorio nazionale, tra i quali: il Premio speciale della Presidenza per meriti culturali, al III Concorso Letterario Fogghi Mavvagnoti Malvagna (ME), 2018; vincitore del Concorso letterario nazionale “Enrico Furli-ni” – sez. poesia inedita, Volpiano (TO), 2017; vincitore del Concorso nazionale di poesia “Miriam Sermo-neta”, Nettuno (RM), 2016.
Qual è il ricordo (o un aneddoto) legato alla tua prima poesia?
La mia prima prova tecnica di poesia? Dovrei ringraziare o “maledire” una ragazzina che non mi si filava minimamente. D’altronde, sono sempre stato estremamente timido e un rifugio sicuro dove poter essere ciò che volevo sono state le parole che condividevo con l’altro amore della mia vita, le arti marziali.
Quale (e per quali ragioni) poeta e relativi i versi che non dovremmo mai dimenticare?
Amo i poeti sudamericani, Julio Cortàzar su tutti. La poesia “Se devo vivere” è, a mio avviso, tra le più belle di tutti i tempi.
Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo (altrui) nel quale all’occorrenza ami rifugiarti?
È una cosa che faccio di continuo. La poesia è uno di quei pochissimi luoghi dove riesco a rifugiarmi per giocare ancora a nascondino con la vita. Lo descrive benissimo Jorge Luis Borges, altro grandissimo da me amato, nella poesia “Sabati”: «La notte opprime l’inferriata. Nell’austero salone come ciechi si cercano le solitudini. Sopravvivere glorioso all’imbrunire il candore della tua pelle. Nel nostro amore c’è una pena che assomiglia all’anima».
Qual è la tua ‘attuale’ spiegazione/definizione di poesia?
Poesia: guardare le stesse cose e vederle con occhi diversi. Nel mio caso la poesia è come un viaggio di solo andata. È un gioco che mi sovrasta, dove forma e sostanza coesistono. La poesia è una gabbia alla mia inquietudine, un posto dove ho tempo per pensare. Attraverso la poesia, poi, provo a far sì che le mie ossessioni diventino occasione di pace con me stesso.
Quando una poesia può dirsi compiuta?
Metaforicamente ho sempre pensato alla poesia come a un muro a secco, dove le parole – così come le pietre – possono essere solo quelle e quelle soltanto. “Iniziare una poesia è cosa divina”, sosteneva qualcuno; finirla, e ritorno al muro, difficilissimo. Tutto dipende da ciò che il “muro” deve o non deve lasciare intravvedere.
La poesia necessita più di ascolto o di essere ascoltata?
Penso entrambe le cose. L’ascolto dovrebbe sempre procedere di pari passo con l’essere ascoltati, altrimenti diventa un monologo. E i monologhi funzionano solo in teatro. C’è realmente il bisogno di rallentare o, se necessario, di fermarsi ad ascoltare: l’amico, il vicino, la gente, sé stessi e, ovviamente, la poesia!
Oggigiorno, qual è (ammesso ne abbia uno) l’incarico della poesia?
Ne parlavo proprio in questi giorni con alcuni amici: il ruolo della poesia. Credo sia del tutto soggettivo e personale. Io ad esempio la “uso” per ricomporre quel puzzle interno raggiungibile attraverso allitterazioni e assonanze. Questo scambio continuo di vuoti e pieni da cui non posso sottrarmi. È e continua ad essere un mistero da cui non riesco a liberarmi.
La parola poetica per preservare la propria efficacia comunicativa deve “esprimersi” usando il linguaggio del tempo in cui nasce e vive?
Sì, secondo me la poesia deve esprimersi di pari passo con il tempo in cui si nasce e si vive. Che senso ha continuare a scrivere come agli inizi del ‘900 o, peggio ancora, andare a scomodare Dante o Cecco Angiolieri. Personalmente, la mia scrittura rispecchia il modo con cui penso. Peraltro, amo tantissimo trasporre in poesia oggetti di uso comune che un lettore attento ritroverà in moltissimi miei scritti.
Qual è stato, ad oggi, il più grande insegnamento ricevuto in dono dalla poesia?
La poesia è un dono continuo. Uno sprone a migliorarmi. La poesia riesce quasi sempre a farmi sentire a casa. Tra amici. Condividere tempo con Montale, Bufalino, Borges mi rende una persona migliore, o, perlomeno, mi rassicura in tal senso.
Per concludere, ti invito a scegliere tre poesie dal tuo nuovo libro, “L’esodo dei muri”, per salutare i nostri lettori.
Amarti è acqua che spezza le ossa ai fiori
Chissà se la pioggia sa di essere sola
quando si capovolge tra la strada
o come me affonda in preda a un’altra sete.
Le tue dita mi soccorrono quanto una luna
quando i silenzi sbattono nei vetri
e mi guardano da vicino.
Dammi un gesto capace di reggerci in due,
un bacio da poter seminare la neve.
Dimmi su quale frammento di suolo tenderai l’amore
e gli acini, a mappa, torneranno a reggere il cielo.
Amarti è acqua che spezza le ossa ai fiori,
spaccatura che matura la vendemmia.
Vieni, scavalcherò me stesso.
Oltre noi non c’è niente, e la calce e i muri
persi nei loro tragitti annegano
mentre tu e io nascosti dal mondo
facciamo l’amore.
—
Appassiscono le dalie(epilessia)
Mi avvelena il petto l’aria,
scheggia mattoni e, priva di volto
diventa pietra.
L’orologio ruota su se stesso, infiamma passi,
moltiplica silenzi.
Il tempo cade dai muri, appassiscono le dalie
si decompone il respiro
sulle mie labbra muoiono i sapori.
Labirinti carichi di smanie mi assalgono alle spalle
denudano parole che a picco
si rompono tra le fughe del pavimento,
su mobili e carne si ossida la speranza.
Velati d’acquitrini si accomodano le ombre
si piega il sangue!
Cado!
Visioni prive di braccia raschiano angoli,
scorticano sensi. Spade invisibili penetrano gli occhi
strappano l’anima dal mio corpo.
Un raggio di luce appeso alle tempie mi riga la vita.
Riverso su me stesso intesso deliri.
Il buio si specchia nel mio ventre e inghiotte la stanza.
L’inferno mi alita sulla bocca.
Dritta nell’aria la rosa svela pietà
lascia cadere petali e inerme
resta a guardare.
Che aspetti Dio ad asciugare la palude!
—
Rrina ca si ssparpagghja
Fra picca ti ni vai. E re to teorii supra l’anzia
nun nn’ arressta
ca n’affabbetu senza veli.
Quannu faciemmu l’amuri jaiu raveru prova ri esistiri.
I mura oltri na quantità ri vasuna ggirunu comu bbanneri
e i sorrisi addivientunu ranni quantu un jornu r’abbientu.
Tuttu chiddu ca sacciu ri tia
è ca ri sempri ancucci i mo fratturi.
SSpessu m’ammaggiantu r’armuvirimi o largu comu a un pisci
ri rari forma a solitudini sulu ppi aviri na marea tutta mia.
Ri tia amu dda ssurdu modu ri confrontariti cca vilanza,
a vuci perfetta re to virazza, quannu a memoria
asspiettunu ca a luna torna a n’trizzarisi tra i rrinoccia.
Tra picca ti ni vai: tuttu arritornerà a ssiri nu reticulu ri vini
e u liettu sbbintrazziatu, rrina, ca lenta, lenta si ssparpagghja.
Rena che si sparpaglia
A breve te ne andrai. E delle tue teorie su l’ansia\ non rimarrà che un alfabeto privo di vele\Quando facciamo l’amore ho davvero prova di esistere\I muri oltre una quantità di baci girano come bandiere\ e i sorrisi si ingrandiscono quanto un giorno d’avvento\ Tutto quello che so di te è che da sempre saldi le mie fratture\ Ho spesso immaginato di starmene al largo come un pesce\ di dare forma alla solitudine solo per avere una marea tutta mia\ Di te amo l’assurdo modo di confrontarti con la bilancia\ l’urlo perfetto delle braccia\ quando a memoria aspettano che la luna torni a intrecciarsi tra le ginocchia\ A breve te ne andrai\ tutto ritornerà ad essere un reticolo di vene\ e il letto disfatto\rena\ che lenta \lenta si sparpaglia\