Un’opera di profonda ricerca materna e materica, come dalla comune radice etimologica, questa di Matthias Ferrino, che parte da un senso di violenta sottrazione dalla “Grande madre”, dal senso di vuoto che ne consegue, e che poi è, in fin dei conti, l’esperienza umana che accomuna tutti. Ma togliere non è per forza perdere, l’arte del levare può diventare conquista della forma, dell’esistenza stessa, come Ferrino sottolinea, inserendo la nota citazione di Michelangelo riguardo la scultura, proprio alla fine di una poesia del libro. Ecco allora che la materia non è solo qualcosa dalla quale ci stacchiamo, come avviene dal corpo materno, e che approda a un vuoto totale, no, quello spazio apparentemente sgombro diventa possibilità di un percorso che tenta di ricostruire la vita. La forza della parola in Ferrino parte e si muove, come per reazione, a una paura iniziale che reagisce in modo violento, energico, non allontanandosi mai da un senso vivo e cosciente del quotidiano incontro con la materia delle cose, delle azioni e dei gesti che sono la parte più istintiva e intensa del pensiero. Ecco che allora dopo “la sottrazione”, quella che lascia “un segno negativo”, si può comunque ritrovare una matita che “traccia a memoria un’urgente/ mappa del tesoro”. Il suo stile si appoggia a un andamento prosastico che non perde mai l’istanza poetica, in una lingua che non si lascia tentare da facili soluzioni impersonali e che evidenzia già una personalissima capacità espressiva.
È appunto una poesia che lacera, che ruvida si fa nel dettato, aprendo squarci e lasciando ferita la pagina, così come le immagini di una realtà che al bambino sottratto appaiono cariche di segni mortali. Ovunque si muova, la poesia di Ferrino si attacca a ogni forma di oggetto reale, vivo, presente. Da un caffè in Autogrill alla cornice di un televisore, nella centrifuga di una lavatrice o nel ragno a testa in giù sul plafone, il movimento di ricerca è affidato a una parola che non smette di scavare e non si rassegna a essere, appunto, vuota. Non viviamo mai una sola età alla volta nel corso della nostra esistenza, ce n’è sempre una che ci accompagna insieme alle altre: è l’infanzia. Ogni contatto che portiamo nel mondo, dal quale ne consegua l’orrore o la gioia, la speranza o la disperazione, è inevitabilmente tracciato dall’ombra del bambino. Sottrazione è quindi sentirsi privati e sottrarsi da qualcosa. I versi di Ferrino sono quindi voce che esprime il dolore e al contempo si nutrono di conoscenza. C’è molto sangue nei suoi versi ma anche molto cibo. E allora essere presenti alla vita è anche questo: imparare a contenere il dolore come una conquista, come quotidiano volerci essere nel mondo, pur fatto di dolore. È un esercizio, certo. Faticoso ma piacevole, se indirizzato nella piena espressione libera del proprio sentire, come in questi bellissimi versi (da “La sottrazione”, Stampa 2009):
Ora, quando pulisco una vetrina
o uno specchio, nonostante le attenzioni
del pubblico, ho imparato a concentrarmi
unicamente nel gesto dello sfrego.
È questo un buon impegno, il detergente
migliore per scancellare in trasparenza
tutte le nostre macchie esagitate.
La sua forza è nell’esercizio quotidiano.