“Verbumcaru” di Sebastiano Burgaretta, “parola come seme di speranza”.

A tutti i bambini del mondo, anche a quelli in età adulta o avanzata. Con questa dedica, il poeta siracusano Sebastiano Burgaretta sceglie di schiudere il suo pregevole “Verbumcaru”, un poema dalla forza dirompente edito da Algra, nella collana “Saccurafa” diretta da Alfio Patti.
Sebastiano Burgaretta (nella foto di Luca Musso) è nato ad Avola nel 1946. Studioso di tradizioni popolari, poeta e narratore, ha pubblicato numerosi scritti in volumi e saggi. Spazia, con i suoi interessi culturali, tra poesia e saggistica varia in campo etnoantropologico, letterario, religioso e artistico. Ha tradotto in siciliano il Simposio di Platone con il titolo di Cummitu (2007), Voci di famiglia di Harold Pinter, inedito. Dallo spagnolo all’italiano ha tradotto le raccolte poetiche I piedi del messaggero di José Félix Olalla (2012), Kaligrafía y gracia di Juan Miguel Domínguez Prieto (2015). Â carni noscia tu ci hâ’-ddhari vita, / unni parola manca a carni ttrasi, / e ccà a carni noscia è prisenti, / carni vinnuta a prezzu ri strasattu, con questi versi scegliamo di introdurre la nostra intervista.

Posto, come chiarisce Dario Stazzone nella magnifica nota introduttiva, che il titolo del poema, “Verbumcaru”, è una chiara allusione al prologo del Vangelo giovanneo, domandiamo: come nasce “Verbumcaru”, quale, dal punto di vista dell’autore, il passo emblematico (la chiave irrinunciabile) per il lettore?

Mi sono portato dentro e dietro per anni il peso della tragedia epocale dei morti che vanno accumulandosi nel fondo del mare Mediterraneo attorno alla Sicilia. Ho sentito e vissuto Verbumcaru come una sorta di magma complesso e doloroso che mi ha accom pagnato per circa sei, sette anni, nell’incapacità di mandarlo fuori a causa del suo peso, che gravava in me sempre più duramente. Tale peso aumentava vieppiù in ragione degli eventi drammatici che periodicamente si susseguivano con maggiore frequenza, a volte anche tragicamente, nelle acque del Mediterraneo nostro. Mi si era formato un groppo che non riuscivo a sciogliere, ma che premeva insistentemente. Non sapevo come dargli corso, sia perché emotivamente ne ero assai condizionato, sia perché temevo il rischio del sentimentalismo e della retorica, quelli che immancabilmente purtroppo si accompagnano alle ventiquattro ore delle cronache applicate ogni volta ai tragici eventi, sia ancora perché non sapevo come dargli corso nella struttura creativa. A un certo momento la cosa mi si è fatta piuttosto pesante da reggere emotivamente e forse anche psicologicamente, finché nella mia vita non è successa una cosa che ha dato la stura al blocco, sciogliendo, grazie al lavoro di alcuni mesi, un duplice nodo e con ciò curando due ferite, una remota e una prossima. Il verso è quindi fluito libero tra canto e pianto, tra sguardo attento rivolto a una tragedia epocale e lirica espressione del dolore sedimentato in me nel corso degli anni. L’opera da sé stessa si è data la forma di un poemetto, nel quale a parlare in una dimensione corale sono i bambini morti nelle acque del Mediterraneo, i loro parenti e l’autore. Il corifeo di questa immane tragedia è il piccolo Alan Kurdi, che dà voce a tutti gli altri bambini inghiottiti, come lui dal mare per colpa degli adulti.
Le vittime appartengono storicamente tutte al mondo musulmano, ma ciò non è un fattore condizionante, perché a unificare tutto e tutti è la dignità umana oltraggiata nelle singole persone. Dalla dimensione in cui parla e modula le varie voci del coro Alan può ormai parlare tutte le lingue, perciò nessun motivo di scandalo, se lui, bambino, e di lingua araba, parla siciliano, un siciliano vernacolare per di più, sia pure dotato del mistilinguismo proprio dell’autore, mistilinguismo in quest’opera più adatto che mai nella produzione poetica dell’autore, anzi necessario, come spiega lo stesso Alan. Il bimbo corifeo sceglie di stare al centro del Mediterraneo, il Bianco Mare, Al Bahr al Abyad al Mutawassat di mezzo, parlando dal suo centro, e perciò dalla Sicilia, cui geografia e storia hanno assegnato un compito unico, speciale, quello di fare da centro irradiante civiltà nel corso dei millenni. Come l’Isola ha sempre fatto nella sua storia, così il piccolo Alan da essa, eletta a centro assiale, con la sua siciliana lingua, nella specificità una lingua materna, si rivolge ai popoli di tutte le sponde del Mediterraneo, a voler significare che i limiti e i confini imposti dagli uomini nel variare delle vicende storiche sono vane mistificazioni, destinate a portare solamente tragedie e lutti.
Come un contastorie di Sicilia Alan vuole, ormai senza ombra di limiti né di confini etnici e linguistici, raccontare e dare luogo alla parola, quella parola creatrice e salvifica che purtroppo tra gli uomini non ha diritto certo di cittadinanza, ma alla quale egli affida il compito di fare da discrimen tra barbarie e civiltà. Quella parola che, di fronte alla sordità degli uomini, cede di necessità il posto alla carne dell’uomo, vocata a immolarsi in un sacrificio supremo, di fronte al quale siamo indotti a doverci vergognare di definirci ancora uomini. Ah, lo strazio in lacrime dell’alato infante, che al Prado, per mano del pennello messanense, sorregge la Parola fatta Carne. Ancora e sempre bimbi in primo piano a cantare il dolori del mondo d’ogni tempo. La carne sacrificale subentra alla parola rimasta inascoltata. La parola si fa carne. Nel deserto lasciato dalle sciagure umane ancora e sempre Verbum Caro factum est.
Quanto alla chiave, al passo emblematico, di cui mi chiede, il tarlo, diciamo così, che mi ha roso e che continua a rodermi, quando penso a questa tragedia cui abbiamo quasi fatto l’abitudine, è la sordità di uomini, di politici e di governanti, per cui mi tornano drammaticamente attuali le parole dell’evangelista Giovanni: La Parola era nel mondo…ma il mondo non la riconobbe. E ciò nemmeno quando è divenuta carne e abitò in mezzo a noi. Questo successe, con tutto il suo emblematico e tragico portato, quando la Marina Militare Italiana, che avrebbe potuto salvare i 480 profughi siriani dal naufragio a sud di Lampedusa, non lo fece, permettendosi di giocare a rimpallo con Malta e lasciando affogare 268 persone tra cui sessanta bambini. Allora la Parola tornò a non essere riconosciuta e fu costretta a farsi carne sacrificale. Questo continua a succedere tutte le volte che si lasciano morire uomini nelle acque del nostro mare.

“io voglio qui cantare in memoria/ di quelli che ora stanno in cielo,/ poiché se li portò al fondo il mare.”, con i suoi versi per chiedere: cosa può la poesia in un momento storico segnato dall’assenza di consapevolezza e dall’incapacità di ascolto?

La poesia per natura sua è libertà ed è spazio, dimensione di verità, nella quale non ci sono limiti di nessun tipo, né storici né geografici né tanto meno etnici. Per questo nasce, dappertutto e in ogni tempo, dal silenzio e dalla capacità di ascolto. I versi qui riportati li ho mutuati, nell’ambito delle mie scorribande mediterranee, dal canto che i pescatori spagnoli rivolgono alla Virgen del Carmen, loro protettrice cui sono assai devoti, tanto che anche la Marina Militare del loro paese l’ha eletta a sua protettrice. Questa citazione conferma l’universalità della poesia e della sua valenza riflessiva e critica in ordine alla capacità e alla disponibilità all’ascolto, senza riserve né limiti di sorta, per quanto attiene ai valori fondamentali su cui si basa il vivere umano, in primis l’amore e il lavoro.

E, ancora, la sua è “poesia che si nutre d’amore verso l’umanità offesa” ma cosa può la poesia contro “il piangere nel mondo”?

Al memorabile discorso che pronunciò il 12 dicembre del 1975 all’Accademia di Svezia in occasione della consegna del Premio Nobel Eugenio Montale avrebbe voluto dare come titolo Potrà sopravvivere la poesia nell’universo delle comunicazioni di massa? Optò poi, come si sa, per il più problematico e totalizzante È ancora possibile la poesia? Affermando che la poesia è un prodotto inutile, ma quasi mai nocivo, metteva le mani avanti, prima di spiegare che la poesia risponde alla dimensione verticale, che è propria dell’uomo accanto a quella orizzontale. Non c’è tratto della vita dell’uomo che non possa essere permeato ed espresso dalla poesia, che resterà sempre una delle vette dell’anima, argomentava il poeta ligure, concludendo col dire che non c’è morte possibile per la poesia, poiché l’uomo non conosce soste né vuoti nel vivere le sue vicende. La poesia, anche vincendo di mille secoli il silenzio, sa farsi accompagnatrice discreta e verace di ogni uomo che sia disposto ad accoglierla e a darle spazio nel proprio vissuto. Ma la poesia è, per sua natura, oltre che verità come ho detto, anche bellezza e bontà, valori e dimensioni che si sviluppano e si esprimono nell’amore. Ed è nel vivere e nel dare amore che la poesia e il poeta possono farsi compagni di strada, silenziosi – del vero, creativo silenzio — accompagnatori degli uomini offesi. Se non possono, per l’intrinseca “inutilità” pratica della poesia stessa, risolvere i problemi degli uomini, possono però farsi amici e compagni di cammino di essi uomini nel portare il peso degli affanni e dei dolori dei singoli e del mondo. Si replica nella vita dei singoli quello che si è verificato nel Verbo che si è fatto Carne: Non è venuto a risolvere i problemi pratici dell’uomo o, come non ha fatto con sé stesso, a togliergli dolori e sofferenze, ma, nel rispetto della di lui libertà, a farsene fedele compagno di strada, fratello accomunato dalla stessa sorte ma unito nell’amore. Ecco, la poesia, quando è vera espressione di vita, davanti al piangere del mondo, sulla scia di tanto esempio, testimonia e insegna la fratellanza, non limitandosi a piangere ma facendosi solidale e presente a chi ha bisogno di ascolto e di umana tenerezza.

Qual è stato, ad oggi, il più inaspettato dono ricevuto dalla poesia? Possiamo considerare la poesia una “terraferma”?

Sono tanti i doni che ho ricevuto dalla poesia. Il più importante è il silenzio, che essa continua a insegnarmi senza sosta. Il silenzio, che solo può rendere capaci di ascolto e quindi di attenzione all’altro. Evito di citare altri doni, ma di uno voglio dire: i fratelli affettuosi che, con mio rinnovato stupore, mi regala nell’amicizia con alcuni poeti, con i quali mi sento in sintonia e che mi vogliono bene.
Non mi sento di considerare la poesia una terraferma. La poesia a me si presenta come quanto di più mobile si possa immaginare, proprio perché essa, vivendo nell’uomo e con l’uomo, è in perenne divenire ed evolversi, come ho detto, compagno di strada sempre e dappertutto. Se poi per terraferma intendiamo punto, asse di riferimento, allora posso dire che la poesia fa capo allo forza dello Spirito, che è al tempo stesso fonte, “motore immobile” in sé stesso, ma anche forza motrice, al cui insindacabile soffio si muovono gli uomini disposti all’ascolto, tra a cui innanzitutto i poeti e i poieti.

Guardando alla sua scelta chiediamo: qual è (e per quali ragioni) la lingua ideale della poesia?

Non penso che esista una lingua ideale della poesia. Ogni espressione poetica è veicolata da un uomo, il poeta, che è ogni volta, in ogni caso, unico e irripetibile, perché è latore di un portato memoriale, che è umano, culturale, etnico, linguistico unico nella sua identità. Perciò ogni poeta deve fare i conti con la propria coscienza e la propria capacità di entrare nudo e scalzo nel fiume della propria storia memoriale e identitaria. Da ciò potrà scaturire la scelta linguistica, che scelta, nel vero senso della parola poi non è, poiché non è il poeta che sceglie, ma è il suo stesso portato memoriale e culturale che detta, impone e impiega la lingua più adatta e appropriata all’espressione o al canto poetico di cui necessita.

Infine la invito, per salutare i nostri lettori, a riportare un passo dal suo poema.

Ai lettori dedico la parte finale del poemetto:

v.1586 

A parola è simenta ri spiranza
e a lingua è la patria ri tutti,
a patria vera, ma nun si capisci,
Danti nu nsigna sempri ppi ‘n aternu.
Unni sia sia ca all’omu va scurannu,
a casa unni stari è a lingua.
Iddha s’hâ stimari e cultivari,
s’hâ-ttèniri pulita e sistimata,
ricca e-ccina ccâ sô potta apetta,
comu nnê sèculi sàppunu fari
i niputi sbannuti ri Abbramu,
comu nnê sèculi sàppunu fari
i niputi sbannuti ri Enea;
a iddhi a lingua ci figghjàu a patria.
Prima a parola e poi macari a terra,
prima veni a lingua e-ppoi lu guvernu.
Elièzer u capìu Ben Yehùda
e-ppattri iddhu fu ri ssu prudigiu.
Ba‘al-ḥazòn meṭoràf venaḥùsh ,
pazzu, visiunàriu arrisubbutu,
casa casa cuminciàu lu cuncertu,
râ famigghja addhumàu e-ddh’amiçi
e-ppoi u focu n’ s’astutàu cciùi.
Prima parrata e-ppoi macari scritta,
‘na lingua riçiantàu ppi l’abbrei,
‘na lingua ca resi poi lu guvernu.
Pazzu, visiunariu arrisubbutu,
vehù he’emìn bezè be-emèt ,
ma iddhu cci crirìu ppi-ddhaveru.
Mai persa è a patria râ lingua,
se si sapi stimari e cultivari
a lingua addutata ri li patri,
chiddha ppi-ccui Gnaziu sbrannìu.
Canciannu venta e punti cardinali,
se a lingua risisti e campa forti,
u locu ri la vita è la spiranza.
Mancannu la parola, tuttu è persu,
picchí, ccu-ttuttu ca nul-lu capemu,
‘n òmmunu sulu peddi l’universu,
se iddhu ppi-ddhisgrazia è persu.
A lingua è a casa râ sapienza
va cantannu Adonis u sirianu,
ràrica ri ssa terra matturiata,
ma nuddhu, è u lamentu rô pueta,
ssa lingua cciùi sapi maniari.
Ma la vita non è vana, amicu miu,
e sècutu iu a ripricari ca
unni parola manca a carni ttrasi,
unni parola manca a carni ttrasi,
Taharu Ben Jalloun n’è tistimoni.
In assenza ri parola parra a carni,
l’acqua rô mari nui fìçimu sangu.
Tannu ci criru ca mê figghiu è-mmottu
quannu l’acqua rô mari si fa ogghju,
ma ccà, Giuvanni miu, nun c’è cchi-ffari,
sangu arristàu ccà l’acqua ri lu mari.
In assenza ri parola parra a carni.
In absentia verbi è fattu u ponti,
comu riri: Verbumcaru fattumest.

Traduzione italiana

La parola è seme di speranza
e la lingua è la patria di tutti,
la patria vera, ma non si capisce,
Dante ce lo insegna sempre in eterno.
Dovunque per l’uomo si chiudon le giornate,
la casa in cui stare è la lingua.
Essa dev’essere stimata e coltivata,
tenuta dev’essere pulita e ordinata,
ricca e piena con la sua porta aperta,
come nei secoli seppero fare
i nipoti esiliati di Abramo,
come nei secoli seppero fare
i nipoti estromessi di Enea;
a loro la lingua partorì la patria.
Prima la parola e poi la terra,
prima la lingua e dopo il governo.
Elièzer lo capì Ben Yehùda
e padre lui fu di quel prodigio.
Ba‘al ḥazòn meṭoràf venaḥùsh,
pazzo, visionario determinato,
dentro casa diede inizio al concerto,
dalla famiglia accese e dagli amici
e poi il fuoco non si spense più.
Prima parlata e poi anche scritta,
una lingua rifondò per gli ebrei,
una lingua che poi diede il governo.
Pazzo, visionario determinato,
vehù he’emìn bezè be-emet,
ma lui ci credette per davvero.
Mai perduta è la patria della lingua,
se si sa stimare e coltivare
la lingua dotata dai padri,
quella per cui Ignazio rifulse.
Mutando venti e punti cardinali,
se la lingua resiste e vive forte,
il luogo della vita è la speranza.
Mancando la parola, tutto è perso,
perché, benché non lo capiamo,
un uomo solo perde l’universo,
se lui per disgrazia è perso.
La lingua è la casa della sapienza
va cantando Adonis il siriano,
reliquia di quella terra martoriata,
ma nessuno, è il lamento del poeta,
quella lingua ormai sa maneggiare.
Ma la vita non è vana, amico mio,
e continuo io a ripetere che
dove parola manca la carne subentra,
dove parola manca la carne subentra,
Tahar Ben Jalloun ne è testimone.
In assenza di parola parla la carne,
l’acqua del mare noi facemmo sangue.
Allora crederò che mio figlio è morto
quando l’acqua del mare si farà olio,
ma qui, Giovanni mio, nulla da fare,
sangue rimase qui l’acqua del mare.
In assenza di parola parla la carne.
In absentia verbi è fatto il ponte,
come dire: Verbum caro factum est.

Potrebbero interessarti