#1Libroin5W.: Giovanni Tesio, curatore di “Donne appassionate”, Cesare Pavese, Interlinea.

CHI?

Protagonista dei versi contenuti in Donne appassionate è la donna, sono le donne, ed è Pavese, che le guarda e le “vive” dal suo angolo visuale. Il tema delle donne in Pavese è uno di quelli su cui la critica si è a lungo e fittamente occupata. La spesso convocata misoginia di Pavese non è altro, in realtà, che la maschera – tanto più ispida – di una solitudine bisognosa di essere colmata, di una ricerca spasmodica di completezza, di una unità mancante, di una amorosa compensazione, di un patto (a se stesso) giurato. E la donna diventa per lui la prova provata (e il fallimentare epilogo) di una coazione che lo esclude, di un sentimento che lo disarma; una sorta di proliferante e fantastico investimento emotivo, che mette in gioco un impegno di agognata ma delusa maturità (“maturità è tutto”, da Shakespeare a Mathiessen).

COSA?

Questa antologia (perché di questo si tratta) è il risultato di una doppia verifica. Da un lato, sì, il rapporto complicato con la donna e le donne, ma dall’altro il segno di una raggiunta maturità poetica: letteraria in senso lato. Fin dal 1928, in una lettera ad Augusto Monti, suo amico-maestro (al Liceo “D’Azeglio”), 18 maggio Pavese scrive: “No, secondo me, l’arte vuole un tal lungo travaglio e maceramento dello spirito, un tale incessante calvario di tentativi che per lo più falliscono, prima di giungere al capolavoro che si potrebbe piuttosto classificarla tra le attività anti-naturali dell’uomo”. Una dichiarazione di poetica profondamente contrastante con quella di Monti: da parte di Monti l’opera che viene dalla vita intensa, da un naturale sviluppo; da parte di Pavese l’opera come esercizio continuo di prove e fallimenti, di macerazioni, che tuttavia giungono in lui a compimento, come questa antologia cerca appunto di documentare dallo speciale angolo visuale di un tema continuo e dunque significativo.

QUANDO?

Più che mia, l’idea è stata di Roberto Cicala, il mio amico-editore, che me l’ha generosamente passata. Ovviamente per me è stato un invito accolto e dunque una vocazione esaudita, avendo già lavorato a Pavese in più di un’occasione. Anche il titolo è di Roberto, e mi pare un bel titolo, che indica la “passione” delle donne, ma anche allude alla “passione” di Pavese. Io credo che il più grande amore di Pavese non siano state le tante donne di cui si è innamorato, ma sia stata la letteratura, sia stata la poesia. Lì l’amore escluso si converte in macerazione poetica. Di fatto, il tema della donna in Pavese va continuamente dall’autobiografica alla poesia, ma la poesia non è in tutta evidenza il semplice derivato di un’idea, di una pulsione, di un procedimento di scavo interiore, perché coinvolge una poetica, e tale poetica non è identificabile in un momento solo, ma si muove e muta, si dispone lungo i gradi di una consapevolezza che è sviluppo, e che include insieme con i fatti della vita che incidono nel profondo il farsi della scrittura che ne è l’interprete.

DOVE?

Procedendo nel lavoro, mi sono reso meglio conto di una persuasione che già me n’ero fatta in passato. In altre parole che nel progredire del rapporto di Pavese con la donna, c’è un progredire della sua poetica e della sua poesia. E l’antologia ha preso uno sviluppo suo, anche un po’ dimostrativo. Io penso, insomma, che, sì, si passi da quella che Pavese chiamava “poesia-racconto” a quella che chiamava “poesia-immagine”, ma che il meglio consista proprio nelle ultime poesie che chiamerei del congedo. Lì il Pavese che si è macerato intorno a un’idea di poesia (e che costituisce un passaggio obbligato della nostra storia poetica, della storia poetica del Novecento), si libera di tutte le sue prescrizioni e diventa profondamente se stesso. A me pare, insomma, che nella lotta tra i residui naturalistici della sua poesia-racconto e la ricerca di quella che anche nel Mestiere di vivere sta nella riflessione sull’“immagine” (Shakespeare, Whitman) il risultato della poesia ultima di Pavese non sia affatto una forma di cedimento o di ritorno all’aura ermetica, ma tutt’al contrario l’inveramento di un traguardo. In altre parole, che la sua poesia ultima, così apparentemente compromessa con una storia d’amore, e dunque chiusa nella sua dipendenza – o giacenza – biografica, sia in realtà un risultato che giunge a “maturazione”, e nell’occasione si sia felicemente – e dolorosamente – risolta l’antica lotta con il demone poetico, con le sue contraddizioni, con le sue impasses. Anche per questo trovo sterile la polemica che Geno Pampaloni ingaggiò con Giulio Einaudi a proposito dell’apparizione editoriale di Verrà la morte (1951). Non disconoscendo, insomma, il valore storico della poesia di Lavorare stanca e tutto il travaglio che gli sta sotto, resta che Pavese va qui ben oltre la mera contingenza amorosa, che si risolve in convincente pienezza di poesia.

PERCHÉ?

Credo di avere già detto troppe parole. Il “perché” spero che si dica da sé. Per tutto quanto ho già detto. A me non resta altro da dire.

 

scelte per voi

 

tre poesie da “Donne Appassionate. Poesie d’amore e morte” di Cesare Pavese, a cura di Giovanni Tesio, Interlinea 2022.

 

Pensieri di Deola

Deola passa il mattino seduta al caffè
e nessuno la guarda. A quest’ora in città corron tutti
sotto il sole ancor fresco dell’alba. Non cerca nessuno
neanche Deola, ma fuma pacata e respira il mattino.
Fin che è stata in pensione, ha dovuto dormire a quest’ora
per rifarsi le forze: la stuoia sul letto
la sporcavano con le scarpacce soldati e operai,
i clienti che fiaccan la schiena. Ma, sole, è diverso:
si può fare un lavoro più fine, con poca fatica.
Il signore di ieri, svegliandola presto,
l’ha baciata e condotta (mi fermerei, cara,
a Torino con te, se potessi) con sé alla stazione
a augurargli buon viaggio.
                                         È intontita, ma fresca stavolta,
e le piace esser libera, Deola, e bere il suo latte
e mangiare brioches. Stamattina è una mezza signora
e, se guarda i passanti, fa solo per non annoiarsi.
A quest’ora in pensione si dorme e c’è puzzo di chiuso
– la padrona va a spasso – è da stupide stare lì dentro.
Per girare la sera i locali, ci vuole presenza
e in pensione, a trent’anni, quel po’ che ne resta, si è perso.
Deola siede mostrando il profilo a uno specchio
e si guarda nel fresco del vetro. Un po’ pallida in faccia:
non è il fumo che stagni. Corruga le ciglia.
Ci vorrebbe la voglia che aveva Marì, per durare
in pensione (perché, cara donna, gli uomini
vengon qui per cavarsi capricci che non glieli toglie
né la moglie né l’innamorata) e Marì lavorava
instancabile, piena di brio e godeva salute.
I passanti davanti al caffè non distraggono Deola
che lavora soltanto la sera, con lente conquiste
nella musica del suo locale. Gettando le occhiate
a un cliente o cercandogli il piede, le piaccion le orchestre
che la fanno parere un’attrice alla scena d’amore
con un giovane ricco. Le basta un cliente
ogni sera e ha da vivere. (Forse il signore di ieri
mi portava davvero con sé). Stare sola, se vuole,
al mattino, e sedere al caffè. Non cercare nessuno.

[5-12 novembre-dicembre 1932]

 

Paesaggio

                                                               (a Tina)

I due uomini fumano a riva. La donna che nuota
senza rompere l’acqua, non vede che il verde
del suo breve orizzonte. Tra il cielo e le piante
si distende quest’acqua e la donna vi scorre
senza corpo. Nel cielo si posano nuvole
come immobili. Il fumo si ferma a mezz’aria.

Sotto il gelo dell’acqua c’è l’erba. La donna
vi trascorre sospesa; ma noi la schiacciamo,
l’erba verde, col corpo. Non c’è lungo le acque
altro peso. Noi soli sentiamo la terra.
Forse il corpo allungato di lei, che è sommerso,
sente l’avido gelo assorbirle il torpore
delle membra assolate e discioglierla viva
nell’immobile verde. Il suo capo non muove.

Era stesa anche lei, dove l’erba è piegata.
Il suo volto socchiuso posava sul braccio
e guardava nell’erba. Nessuno fiatava.
Stagna ancora nell’aria quel primo sciacquìo
che l’ha accolta nell’acqua. Su noi stagna il fumo.
Ora è giunta alla riva e ci parla, stillante
nel suo corpo annerito che sorge fra i tronchi.
La sua voce è ben l’unico suono che si ode sull’acqua
– rauca e fresca, è la voce di prima.
Pensiamo, distesi
sulla riva, a quel verde più cupo e più fresco
che ha sommerso il suo corpo. Poi, uno di noi
piomba in acqua e traversa, scoprendo le spalle
in bracciate schiumose, l’immobile verde.

[1934]

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi –
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

[22 marzo 1950]

*

Giovanni Tesio (1946), già ordinario di letteratura italiana presso l’Università del Piemonte Orientale A. Avogadro, ha pubblicato alcuni volumi di saggi (l’ultimo, La luce delle parole, per Interlinea, nel 2020), una biografia di Augusto Monti, una monografia su Piero Chiara, molte antologie. Ha curato per Einaudi la scelta dall’epistolario editoriale di Italo Calvino, I libri degli altri (1991), or ora riedito da Mondadori negli Oscar trent’anni dopo la prima edizione. Molto ha lavorato intorno a Primo Levi di cui ha pubblicato la conversazione Io che vi parlo (2016) presso Einaudi e due volumi su vita e opere presso Interlinea: Primo Levi. Ancora qualcosa da dire (2018), Primo Levi. Il laboratorio della coscienza (2022). Sempre presso Interlinea ha pubblicato un pamphlet in difesa della lettura, della letteratura e della poesia, I più amati. Perché leggerli? Come leggerli? (2012), un “sillabario” intitolato Parole essenziali (2014) e due antologie dedicate alla poesia e alla prosa della Shoah, Nell’abisso del lager (2019) e Nel buco nero di Auschwitz (2021), e ora ancora un’antologia dedicata a Pavese, Donne appassionate. Poesie d’amore e di morte (2022). La sua attività poetica, dopo esordi lontani, è sfociata nella pubblicazione di un canzoniere in piemontese di 369 sonetti, intitolato Vita dacant e da canté (Torino, Centro Studi Piemontesi, 2017), poi seguito da due titoli editi da Interlinea, Piture parolà (2018) tradotto in francese (14 seconde. L’art réfléchi dans un sonnet) da Perle Abbrugiati, e Nosgnor (2020). È stato per trentacinque anni collaboratore di “La Stampa” ed è condirettore della rivista “Letteratura e dialetti”. Nel 2018, presso Lindau, è uscito il suo primo libro di narrativa, Gli zoccoli nell’erba pesante. È tra i fondatori e direttori della collana di poesia “Lyra” e dirige la collana “Diramazioni” presso l’editore Carabba di Lanciano.

 

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