Autore: Giulia Tamburini

L’(ac)analisi è la traccia di fondo di questo “ certo numero di scritti che fanno un corpo” , per riprendere le parole della mia analista. È ciò che lega questi pezzi, quando, dopo ben 27 anni di lunga gestazione incosciente, ho partorito la mia prima poesia. È stato infatti solo grazie alla mia dura analisi lacaniana iniziata ad ottobre 2012 che ho potuto lasciar cadere l’attaccamento morboso alla parola che spiega, che descrive, che ordina in cui sono stata immersa tra testi scolastici, universitari (sono Dottoressa Magistrale in Economia e Management), manuali di psicologia e aprirmi alla parola poetica, che ri-vela e che e-voca. Ho quasi 30 anni, sono nata a Cagli, vissuto a Fano, studiato in Ancona e fin da piccola sono stata nominata come “la fissata con le parole”, “quella che le parole le prende troppo sul serio”, “quella a cui tocca stare attenti che se dici cane, poi devi voler dire cane.” Ma ahimè. Già ad 8 anni mi sono scontrata con l’equivoco, l’incomunicabilità con l’Altro; mi sono fissata nella frustrazione del fraintendimento e la mia unica garanzia per stare al mondo ossia, “prendere tutto alla lettera” si è rivelata triste condanna. Ora sto cercando, di quella frase che sono, di farne il mio sinthomo. Lo scandirsi delle sedute, dicevo, mi ha permesso di sperimentare/verificare la parola che “fa accadere”. L’inconscio, certamente. Ma che traccia, segna, (di)segna, in modo letteralmente diverso da quello esclusivamente esplicativo-organizzativo e anche nevrotico (perché no?) che fino ad allora potevo permettermi di tollerare e riconoscere. E progressivamente, non più spaventata dal fatto che “si parla per essere e non per essere capiti”, che non esiste una lingua comune e che allo stesso tempo l’essere umano non può fare a meno di parlare, desiderare, re-petere, in questo ultimo anno e mezzo ho potuto scrivere in modo nuovo. Ritrovando però l’antico godimento nel giocare, maneggiare, manipolare le lettere. Inutile precisare che Lacan non lo ho studiato ma, per fortuna (date le mie esperienze di “psicoterapie “ precedenti), ci ho inciampato, ci sono caduta addosso, sono sprofondata nelle sue braccia, mi ci sono scontrata, lo ho adorato, lo ho odiato, non lo ho capito, ne ho sentito gli effetti sul mio corpo solo tra-passandoci. Ancora e ancora. Angosciandomi davanti all’impossibile a dirsi. Perché “ma chère, la parola non arriva a coprire tutto”. (cit. della mia analista). Già non dice tutto, non spiega tutto, non ordina tutto, non fa funzionare tutto, non completa e non colma di senso. Ma (e)voca, chiama, scava, incide e (ri)suona. Ecco perché la poesia. Ecco perché ora posso sorridere quando una mia amica brasiliana mi ha detto “Giulia tu sei come fioraia di parole”.