Jolanda Insana, rielaborazione grafica di Nino Federico

«Pupara sono / e faccio teatrino con due soli pupi / lei e lei / lei si chiama vita / e lei si chiama morte». Versi tra i più emblematici di Jolanda Insana, indomita poetessa messinese, classe 1937, dipartita, lo scorso 27 Ottobre 2016, lasciando un vuoto sensibile nel mondo della letteratura. Poetessa memorabile alla quale abbiamo scelto di dedicare la nostra copertina. «Conobbe – come riferisce in “Autodizionario degli scrittori italiani” – la guerra e i fichi secchi, e dunque predilige parole di necessaria sostanza contro il gelo e i geloni (Ipponatte docet) dell’inverno freddissimo del ’44, e contro i bombardamenti a tappeto su Messina e i boati di terremoto». Laureatasi in Filologia greca, ha insegnato nei Licei e all’Università. Viveva a Roma dal 1968. Ha esordito con la silloge “Sciarra amara”, nel «Quaderno collettivo della Fenice» n. 26, Guanda 1977, scoperta dal suo “interlocutore privilegiato”, Giovanni Raboni, che, nel 2002, la definì: «uno dei più vividi talenti espressivi suscitati negli ultimi decenni dalla riluttanza a morire della nostra povera, martoriata, meravigliosa lingua italiana». La Insana si è dedicata alla traduzione di vari classici e autori contemporanei, dal greco e dal latino (Saffo, Plauto, Euripide, Alceo, Anacreonte, Ipponatte, Callimaco, Lucrezio, Marziale), altresì ha adattato in versi opere di Ahmad Shawqi e Aleksandr Tvardovskij. Alla pubblicazione con Garzanti di “Tutte le poesie 1977-2006”, seguono “Satura di cartuscelle (Perrone, 2008), “Frammenti di un oratorio per il centenario del terremoto di Messina”  (Viennepierre, 2009), “Turbativa d’Incanto” (Garzanti, 2012) e “Chiamiamoli per nome” (La Luna, 2015). Aderenza alla realtà, espressività, frammentarietà, allegorismo, fervore linguistico, hanno distinto la sua incessante corrente verbale alimentata dal desiderio di ideare la propria lingua sperimentando tutti i linguaggi (e, onorando “l’impegno di vivere” votandosi al vero). La poesia è sempre traduzione, “un trasportare da una parte all’altra”, sosteneva l’autrice che, come chiarito da Ambra Zorat, ha scelto di immettere nell’idioma nazionale delle parole nuove (dei calchi semantici siciliani) causando una vera e propria interferenza del dialetto sul sistema linguistico italiano. “Da sempre – osservava la Insana -, mi combatte e intriga la consapevolezza che la parola è manchevole e non mi basta, mentre io la voglio piena e impura, e dunque mi arrabbio e infurio e mi scateno su parole che m’incatenano e non mi lasciano dire; e così travaglio con fatica e gaudio assai, procedendo per appunti, abbozzi, mezzi versi, mezze immagini, parole smozzicate o sguantate che a lungo mi porto dentro, con piacere con scontento, e le covo, le giro, le rigiro”. La ricordiamo, invitandovi a leggere tra le nostre pagine (anche) l’originale Recinzioni di Antonio Lanza, con un’ulteriore selezione di versi scelti da “La stortura”, poema-monologo universale in cui, come ha osservato lo stesso Raboni, infermità del corpo e infermità della nazione, anzi del pianeta, fanno un tutt’uno drammaticamente vessato e dolorante: «è nella pupilla la salute dell’occhio / e nell’occhio la salute del corpo / e però per sbrinare il cavolo / ci vuole poco / quasi niente / manca un’anticchia di sole».

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