Tibor Nagy, Ghost Town fortini
Tibor Nagy, Ghost Town

 

 

Seta dentro
ad un messaggio in bottiglia.
L’arpeggio è una mano muta
che sfiora
sinfonie di spine.
Si staglia nell’indaco della notte
la torre dei leoni
e il fossato di cinta culla
lo strazio zingaro
di una lacrima di ruggine
È l’altra città
quella che scrive distanze
in punti di passi.
Che incide certezze
in eclissi primordiali di merli.
C’è ancora la tua strada
scavata nei miei fianchi
Mentre percorri nascosto
il ponte levatoio del suo corpo.
Seta dentro
ad un messaggio in bottiglia.
Vagando tra lanterne lente
di una prigione pigiata
dal plettro che graffia
afflati di sangue
Su pietre accese
di un castello spento.

 

*

 

Il freddo dell’assenza
sale dalle braccia
e scorre nodi di frangia
in uno scialle vuoto.
È un rintocco di orologio rauco
che sveglia il cemento interiore
di un mondo
che non si attacca.
Plana sul collo il fiato di un’ombra
strizza un fazzoletto fradicio
che sa di menta verde
e velluti secchi di salvia
C’è una sottoveste stanca
sullo spigolo di una seggiola
Un lenzuolo di petali spenti
sull’odore di un’impronta.
Un battito improvviso di pioggia
intaglia cortecce a occhi di ciglia
E scivola
su cristalli sparsi di sale e polvere
Cerca riflessi d’arpa
per arrampicarsi rotolando
verso la sorgente
di una pupilla azzurra.

 

*

 

Nel bosco. I corpi.
Ho bevuto sudore come acqua
che disseta
le nudità dell’esistenza.
L’abbandono è cecità
Assoluta
senza scudi.
Forza di vento in colpi di carezze
dimenticate sull’erba.
Lasciate a baciarsi nel vento
come fogli scritti e gettati
Dimenticati
a macerare
tra foglie selvatiche di parole.

 

*

 

È un tempo liquido
la notte
che vomita
certezze di falda
dalla grata concava
di pietre di pozzo.
A passi di danza sul baratro di una crepa
nel frastuono muto
di un riflesso che scava
viscere di vuoto.
L’ombra riflette
il gorgogliare di paure
che risalgono graffiando
anelli di carrucola.
La faccia nel secchio
per pulire fango di fragilità.
Le mani nell’erba
per impastare pensieri a pelle.
È un tempo solido
il mattino che incide
polsi con la penna
per spremere nettare di grano
da una terra riarsa
vangata dalla linfa cruda
di un inchiostro confuso di velleità.

 

*

 

Sassi per tagli
Colori per cenere
Silenzi per battaglie
L’immediatezza dell’azzardo del vero
stende. L’affondo del dire strappa.
C’è un grido scalzo che contiene parole.
Scudi segreti di fogli che liberano.
Pagine clandestine che non tradiscono
È il cassetto che non si chiude
La chiave che non si perde
La voce che non si vede.
L’atrio vivo di angoli vuoti
Plana in uno spazio libero di carta
la frana inarrestabile della rabbia
che trasforma pugni chiusi
in pensieri lenti di inchiostro.

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