“Io parlo dai confini della notte” di Forugh Farrokhzad. Il curatore, Domenico Ingenito: “è una poetessa del futuro”.

«Creasti questo mondo terreno sapendo/ che tutto intorno a noi non è che miraggio, malia,/ incanto. Noi bambole nel tuo gioco di prestigio:/ ed eccoti la nostra blasfemia, la nostra ribellione». Versi scelti per introdurre Io parlo dai confini della notte, vorticoso volume, tutte le poesie di Forugh Farrokhzad, giunto ad arricchire “CapoVersi”, collana pubblicata da, diretta da Beatrice Masini con Paolo Maria Bonora e Gerardo Masuccio. 

Forugh Farrokhzad, «voce sincera», ardita rivoluzionaria, per lungo tempo censurata in casa propria, in Iran, dipartita prematuramente a causa di un incidente stradale, oltreché potente poetessa è stata traduttrice e cineasta. Con i suoi versi integri, inquisitori, irriverenti, infuriati, ci trascina, «a capofitto nel petto del ciclone». Con testo persiano a fronte, la cura magistrale è di Domenico Ingenito che abbiamo intervistato.

“io parlo dai confini della notte”, tutte le poesie di Forugh Farrokhzad; perché (oggi), dalla voce del curatore, leggere questo libro?

Perché raccoglie in un unico volume l’intera opera poetica di una delle voci femminili più importanti del Novecento. Si tratta di una poesia che celebra non solo il valore della libertà di espressione contro ogni forma di controllo patriarcale, incluse le tendenze populiste e neofasciste che si affacciano oggi in occidente ma la dignità dell’essere donne in quanto fonte inesauribile di grazia e lucidità del pensiero.

Quali parole ti trovano se ti chiedo di tratteggiare la Farrokhzad secondo l’idea che, in un lungo tempo di “ascolto”, ti hanno “restituito” i suoi versi, meglio il suo “fare”?

Rispondo con un verso di Forugh: “e questi miei occhi: esperienze dense del buio”

 “Il verso sordo del brusio delle rane/ si insinua nel silenzio misterioso della notte.”, la poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile?

C’è ovviamente una visione romantica della poesia che si avvicina al discorso mistico, sia occidentale che orientale. Io tropo particolarmente interessante la forza che ha la poesia di creare possibilità del sentire tramite un uso calcolato di immagini e suoni. Da specialista della poesia medievale persiana, faccio molta attenzione a come l’artificio linguistico riesca a generare possibilità di senso che vanno al di là della differenza tra verità e affabulazione.

“Donami un amore che mi renda/ come gli angeli del tuo paradiso/ offrimi un amato in cui possa vedere/ una stilla della tua purissima natura.”, la poesia può colmare la pensosa solitudine del poeta?

Si tratta di una questione molto importante, soprattutto nel caso della poesia di Forugh Farrokhzad, ossessionata dalla propria solitudine e dalla ricerca di una forma di comprensione profonda del valore dell’umano al di là di ogni legame d’amore, affetto e amicizia. La poesia è sicuramente la prima interlocutrice di questa grande poetessa iraniana. Inizialmente rappresentata come divinità alla ricerca di vittime sacrificali, infine vista come unica fonte di sopravvivenza in un mondo che si svuota progressivamente di senso e valori. Quindi poesia, per Farrokhzad, è ponte verso un oltre assolutamente invisibile, speranza in qualcosa il cui carattere non è mai davvero chiaro, ma che annuncia la possibilità di sentirsi vive, pienamente vive, anche quando ogni cosa preannuncia la propria fine.

La Farrokhzad, leggiamo nella tua nota introduttiva, continua ad esercitare la sua influenza letteraria ben oltre i confini della sua lingua. Possiamo parlare del significato di questa “influenza” a partire dalla constatazione che con la sua opera ha inaugurato, negli anni Cinquanta, l’ingresso iraniano nella modernità lirica?  

In un recente incontro (alla Sapienza) ho proposto che la Farrokhzad è una poetessa del futuro. Sebbene la sua poesia sia amatissima sia in Iran che all’estero (pare che il volume Bompiani da me curato stia diventando un caso letterario qui in Italia), credo che sono adesso lettrici e lettori sono in grado di cominciare a comprendere appieno la portata rivoluzionaria (filosoficamente tale, non solo dal punto di vista dei diritti umani) di quello che Farrokhzad aveva da dire.

Pensando alla Farrokhzad, celebrata come figura (attualissima) di “rottura e ribellione”, sovviene una riflessione di Paul Celan (tratta da “Microliti” a cura di Dario Borso, Mondadori) appropriata per il nostro quesito: le poesie non cambiano certo il mondo, ma cambiano l’essere-nel-mondo?

Assolutamente. È proprio questo darsi della sua poesia come testimonianza dell’esserci che forse spiega la potenza della parola di Farrokhzad, e la capacità che essa ha di aprire nuovi spiragli anche in traduzione, decenni dopo la sua morte. È anche per questo motivo che il proto-femminismo iniziale di Farrokhzad, la sua seppur importantissima retorica dell’impegno di genere, diventa poi nella sua produzione più matura una forma di impegno antropologicamente molto più radicale.

Pensando alla tua attività di traduttore domando: la poesia è realmente traducibile? E se lo, è più corretto parlare di traduzione o di reinvenzione, riscrittura?

La traduzione non è altro che una delle forme con cui la parola porta avanti le proprie possibilità di significare e farsi senso. Se una poesia “significa” già nel tessuto linguistico che le è proprio è sicuramente già proiettata verso le forme di senso che possono essere sviluppate in altra lingua. La questione dell’intraducibilità della poesia è un falso problema, proprio perché, per sua natura, al confine tra centralità di forma, ritmo e immagine, la poesia ha senso sono nel contesto della differenza tra le lingue. La poesia sfida, per sua natura, l’impossibilità del dire, e quando ci si scontra con la presunta impossibilità del tradurre, e solo allora, il testo originale svela tutta la potenza del proprio senso. Gli scarti tra le lingue si aprono proprio per mostrare come il linguaggio richieda la costruzione costante di ponti, al fine di arrivare al cuore delle cose nel loro rapporto con parole e immagini.

E, ancora, la poesia (dal tuo punto di vista) è più ispirazione o più costruzione? Qual è stato, ad oggi, un “insegnamento” ricevuto in dono dalla poesia o, se preferisci, da un verso?

Forse si tratta di una forma di ispirazione costruita? Parafrasando Fernando Pessoa: la finzione del dolore giunge a produrre un dolore che, nella sua artificialità, è ancora più vero del dolore che si sente per davvero? Quale insegnamento migliore di questo? Ogni artificio è verità, e ogni verità è artificio.

Sceglieresti per salutare i nostri lettori, una poesia della Farrokhzad che ha cambiato (più di altre, e ammesso sia accaduto) il tuo essere nel mondo (e, magari, spiegandoci il perché di questa scelta/preferenza)?

Scelgo la poesia-cifra di Farrokhzad, Una rinascita, che presta il titolo all’ultima raccolta pubblicata dall’autrice. È un testo che svela nuovi significati ogni volta che lo rileggo, e mi porta a riflettere sul significato dello stare al mondo, come coincidenza di senso e assenza di senso, di banalità e sacralità, euforia e disperazione. Ogni disfatta è in sé possibilità di rinascita ciecamente violenta e sconfinata.

 

 

 

(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 17.12.2023, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

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