nautilus
Partiamo dalla morte, anzi dal suo opposto. L’idea dell’immortalità fa orrore: un giorno si presenterà la belle dame sans merci, ma se non lo facesse non ne saremmo felici, ne sono certo. Nel film “Nosferatu, il principe della notte” di Werner Herzog, a un certo punto Klaus Kinski, che interpreta il Conte Dracula, sibila: “Il tempo è un abisso, profondo come lunghe infinite notti. I secoli vengono e vanno. Non avere la capacità di invecchiare è terribile. La morte non è il peggio: ci sono cose molto più orribili della morte. Riesci a immaginarlo? Durare attraverso i secoli, sperimentando ogni giorno le stesse futili cose!..” Non lo ammetteremo mai, ma alla morte chiediamo la libertà. Pasolini conclude la sua poesia “Un affetto e la vita” (da “Trasumanar e organizzar”) con queste parole: “Anzi, io credo / che questo affetto altro non sia che un pretesto / per sapere di avere una possibilità / – l’unica – / di disfarsi senza dolore di sé stessi”… Milan Kundera ne “L’insostenibile leggerezza dell’essere” si domanda se sia positiva la leggerezza o la pesantezza. Se sia meglio la volatilità degli avvenimenti, che una volta accaduti non tornano mai più o se invece positivo sia il ripresentarsi eterno delle cose, delle situazioni, che inchiodano alle responsabilità (l’eterno ritorno di Nietzsche). Difficile rispondere, probabilmente impossibile. Si dovrebbe innanzitutto individuare la natura del tempo: una linea retta o un ciclo continuo? Ebbene, pensandoci, pare che per alcuni proceda dritto, come avesse una meta da raggiungere, per altri sia un circolo vizioso. Come spiegare, altrimenti, la varietà di certe esistenze, con avvenimenti che le cambiano di punto in bianco e, di contro, l’ineluttabilità di altre, sempre uguali a sé stesse? Gira, lento e vorticoso, come un ballo tondo. Come il Bolero di Ravel. Oppure schizza via come una freccia. Forse il tempo non è uguale per tutti. Forse. A volte la vita parla a bassa voce, a volte urla, ma il suo linguaggio è quasi sempre incomprensibile. La si passa interamente cercando di decifrarlo: in genere ci si riesce quando sta per concludersi. Vi sono delle occasioni in cui viene naturale pensare ad essa come a una beffa: ci si offre quando ormai è tardi, spesso troppo, per afferrarla. Ed anche ciò che si riesce ad afferrare lascia il rimpianto per quello che Proust chiamerebbe il “tempo perduto”. Il primo pensiero è: “Perché solo adesso?” Poi si cambia interrogativo, ne viene in mente un altro: “Perché proprio adesso?” Probabilmente è quello giusto. Solo che dovrebbe essere posto all’Entità Superiore che, per definizione, non ha il dovere di rispondere ed infatti non lo fa mai. Magari nei suoi disegni imperscrutabili l’accadimento che a noi pare ritardato avviene nel momento esatto. Non resta che prenderlo per ciò che è e per ciò che dà. Tutto il resto non avrebbe senso, i rimpianti e le recriminazioni non cambiano nulla, anzi fanno sì che quanto di buono è finalmente accaduto non venga goduto. Questa sì, una beffa. Il tempo è una lebbra, stacca dal corpo e dall’anima pezzetti imputriditi di essi. Si può solo assistere impotenti al loro decadimento, più o meno lento. Riguardo al suo trascorrere nutro sentimenti ambivalenti: da un lato penso ai momenti brutti che mi lascio alle spalle che, leopardianamente, mi paiono sempre prevalere su quelli felici, che pure ci sono e non sono pochi, né di poco conto; dall’altro ogni giorno che passa è un giorno in meno della mia vita. Come la mettiamo? Meglio vivere giorno per giorno, pensando che il meglio non è ancora venuto. Poi i conti li faremo alla fine. E il viaggio continua: forse ho un appuntamento, un posto in aereo prenotato per me da chissà chi, chissà per dove, per quando? Il carburante non manca, è la voglia immensa di vivere e di scoprire come va a finire il mio film, quello che interpreto senza saperlo, una specie di “Truman show”, di cui non conosco la sceneggiatura: recito a soggetto. E chissà che faccia farò quando leggerò (come nelle vecchie pellicole americane) “The End”?! Sarà bello stropicciarsi gli occhi e andare a dormire sulla solita nuvola con quattro battiti d’ali; e farsi una gran risata prima di addormentarsi…
(Opera di Alessandro Giusberti)