La «sete» richiama la profondità dell’acqua a significare la profondità dell’esistenza, l’andamento è quello distintivo dei corsi ad alto tasso di rinnovamento che avanzando colgono l’essenziale e fissano (versi come veri spazi percorrenti intimi sottosuoli) la condizione ciclica (vitale) del mondo, «un devoto restare», sebbene il “distacco”, ritmicamente rinascere dagli abissi, nelle “altre” altitudini, fino a «Dio, spazio d’eterna resa». Parliamo di “Getsemani”, nuovo “rumoroso” libro di Luca Pizzolitto, edito da “peQuod”, nella collana “Rive”, prefato da Roberto Deidier che “guada” magnificamente il volume osservando come il poeta “tesse la sua elegia del vuoto, fa della malattia un confine, un discrimine tra due dimensioni, quella del dicibile e quella del silenzio, indotto e necessario, di fronte alla contemplazione della morte. Non è, del resto, quanto esperisce il dio incarnato in quel remoto orto?”. Come chiarisce Pizzolitto, “Getsemani” è la terza parte di un libro pensato come un unico progetto poetico, indicativo di un cammino distinto da una continua oscillazione tra «un approccio alla realtà di tipo esistenzialista e un intimo percorso di ricerca spirituale». Completano la trilogia, “La ragione della polvere”, incentrato sulla transitorietà delle cose, e “Crocevia dei cammini”, intorno al tema polisemico dell’incontro.
“Nell’abisso, nel vuoto// non esiste parola.”, con i tuoi versi per chiederti: le parole bastano alla poesia?
Secondo me le parole non bastano alla poesia, e la poesia non basta alla vita. C’è sempre un qualcosa di percepito ed inesprimibile, una profondità di gioia o dolore che può essere solo vissuta e, attraverso le parole, intuita e mai detta in maniera completa, esaustiva. Nonostante ciò, la parola poetica ha, per quel che mi riguarda, una necessità assoluta, una potenza indescrivibile. Provo ad esprimere questo concetto, attraverso una frase bellissima di un poeta da me molto amato: Yves Bonnefoy. “La parola poetica avvicina soltanto ma è, nello stesso tempo, quella parola che salva il mondo dall’abbandono, che trasforma l’esilio in speranza, che ritesse il filo spezzato della vita.”
“nella breve memoria/ l’eternità della luce”, chi si è salvato (nella duplice accezione) dentro la tua poesia?
In primis, anni ed anni or sono, sono stato io il salvato. È stata, la poesia, un lumicino tenue, quasi invisibile ma sempre presente, nel cuore della notte. È stata, in altre circostanze, la direzione, il senso preciso delle cose. È stata il buio reso umano, sopportabile, il dolore spezzato, condiviso; è stata la gioia improvvisa, l’amata solitudine, la cura e il dono. Da questa esperienza è nato sia il mio percorso di scrittura che l’urgenza di condividere, diffondere, nel piccolo, le parole di poetesse e poeti che incontro, auspicando il loro sguardo possa farsi speranza, ricerca di bellezza per chi legge. O anche solo piacere nella lettura, capacità di vedere il mondo da una prospettiva differente da quella in cui, spesso, siamo come imprigionati, convinti dell’assoluta veridicità del nostro stare.
Qual è (o quale dovrebbe essere) la lingua ideale della poesia?
La parola poetica che ricerco è semplice e precisa, mai banale, pensata molteplici volte prima di essere detta (e scritta); una parola che tende alla bellezza, anche passando attraverso il dolore, il buio, la morte. Una parola che, tornando alla luce, si possa fare canto (parafrasando Ungaretti).
La forma quanto incide sulla “verità” della parola poetica?
La forma è importante, essenziale. Ma non assoluta. Non amo quel tipo di scrittura (sempre più in voga) in cui la forma è il tutto e, spesso, il significato si perde, diventa irrilevante o di facciata, trasformando così la poesia in un bellissimo (e vuoto) esercizio di stile.
Ad oggi, dove sei stato condotto dalla poesia e qual è stato l’insegnamento?
Ad oggi la poesia è diventata una parte imprescindibile della mia vita: non riuscirei ad immaginare un Luca Pizzolitto senza la scrittura (ma, soprattutto, la lettura, la condivisione). La poesia è, da anni, un qualcosa di vitale, per me; una necessità mentale, psichica. Un qualcosa che fa parte in maniera incondizionata di me; come fa parte di me il cercare spazi di quiete e silenzio, il passeggiare a lungo col cane, l’andare sui monti… Per quel che concerne l’insegnamento che la poesia mi ha dato, penso che dovrei fare un elenco piuttosto lungo, essendo tante, davvero, le cose che quest’arte mi ha dato e continua, ogni giorno, a donare. Dovessi sceglierne uno solo, penso direi che la poesia, la parola salva. Non in senso assoluto, certo; ma, senz’altro, in maniera più che sufficiente.
La poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile?
Enrico Camanni ha scritto: “L’infinito esiste, amico mio, ma bisogna sporgersi.” Penso questa frase possa essere la risposta alla tua domanda. La poesia, per me, è il tentativo di rappresentare in parole l’ineffabile, di sporgersi verso ciò che sta oltre, rimanendo però sempre ben radicati alla terraferma, al quotidiano, all’attenzione per l’altro, per le piccole cose spesso, nella fretta, non viste. Dimenticate.
“Il nostro umano non restare,/ cadere, farsi pioggia in aprile.”, ancora i tuoi versi per chiederti: la poesia può colmare la pensosa solitudine del poeta? Può colmare l’inascoltato?
Sì, io penso la poesia possa raggiungere la solitudine del poeta, ma non solo del poeta: ogni solitudine, ogni “inascoltato” di chi, alla poesia, non solo si avvicina, ma da lei si lascia riempire, nutrire, dissetare. Anche se, spesso, almeno in me, rimane una profonda sete: è quella sete connaturata alla condizione umana, un qualcosa che rimarrà come impronta di un’eterna ricerca, nostos senza un’Itaca in cui fermarsi per sempre e poter dire ‘Ecco la fine del viaggio’. Provo a dire questo pensiero, ancora una volta, con le parole di una grandissima poetessa portoghese: Sophia de Mello Breyner Andresen. La mia patria è dove il vento passa. Aggiungerei, in conclusione, un’altra tanto breve quanto potente frase, di Margherita Guidacci: Patria dell’uomo è l’uomo e noi siamo tutti in esilio. Queste due immagini rappresentano, per me, il senso profondo, viscerale, della poesia. Ma anche, ad oggi, dell’esistere, del mio quotidiano stare al mondo.
Per concludere salutando i nostri lettori, ti invito a scegliere tre poesie dal suo libro.
Erba amara, fatica è la resa
incondizionata a Dio
bellezza che volge in pietra,
morire oggi nel deserto delle
cose, la fine immatura del giorno
– mia vita,
mia vita involontaria.
*
Luglio qui si attende
nelle crepe.
Scrivere è il mio
secondo esilio.
*
Un cielo caduto
l’ultima pietra sul viso
vieni dal vento, dal grido
schiacciato in gola
questa distanza da me,
da tutte le cose.
(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 19.11.2023, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).