Matteo Nucci, “Il grido di Pan” per entrare in contatto con la nostra “umanità”.

«Al principio è la meraviglia. Tutto suscita meraviglia e stupore. Un’emozione confusa in cui la paura diventa inquietudine. L’emozione di chi non sa dare spiegazione di ciò che ascolta, vede o pensa, e dunque quasi prova un senso di vertigine che lo spinge a mettersi in cerca». Un passo dal nuovo libro “Il grido di Pan” di Matteo Nucci, edito da Einaudi, acclamato protagonista al XIII Festival delle narrazioni, della lettura e del libro, “NaxosLegge”, ideato e diretto da Fulvia Toscano, quest’anno intitolato allo “sterminato” (e “poetico”) tema del “Fare”. Quella con Nucci, moderato da Fulvia Toscano, animato (anche) dalla presenza di Sonia Macrì e Riccardo Mondo, è stata, dall’inchiostro alla voce, una brillante occasione di riflessione “accesa” – dalle origini ai nostri giorni – sulla sostanza di quello che siamo diventati.

Partiamo dal titolo, “Il grido di Pan”, senza dimenticare che ogni lettore coglierà il “proprio”, per focalizzare il messaggio cardine del tuo nuovo libro?

Pan è il dio della natura, ha tratti caprini, è sessualmente inesauribile, è giocoso ma temibile e il suo grido getta nel terrore che prende il suo nome: il panico. Contro chi grida Pan? Questo è il grande problema che spesso si mette da parte. Ma la storia è chiara: Pan scatena la sua ira contro chi lavora nel tempo del riposo, nel tempo che l’uomo deve dedicare a se stesso e alle grandi questioni dell’esistenza. Pan spezza le gambe di chi non resiste alla droga del lavoro, al delirio della produzione, alla smisurata voglia di successo e denaro. Sembra una punizione, quella che Pan infligge a chi è afflitto dalla malattia del profitto, ma si tratta in effetti di una possibilità: la possibilità di rientrare in contatto con la propria umanità. Ovvero con la mortalità che ci rende umani. Nozioni apparentemente semplici ma che sono come perdute.

Dove abbiamo smarrito la “meraviglia” delle “origini”, potremmo dire la saggezza del nascituro, per arrivare incuranti a non avere “coscienza” del nostro (modo di) stare al mondo?

Stando agli antichi, la meraviglia che mette in moto la conoscenza non è un’emozione delicata, ma una specie di sconvolgimento, di vertigine. Siamo in crisi, non abbiamo risposte, dobbiamo trovarle. La strada che ci porta a queste risposte che poi aprono nuove domande non importa quale sia. Importa provare la vertigine e non dimenticare la domanda circa una vita che si vive per poi morire. Non c’è un momento storico in cui si perde, lo slancio. Certo la tecnocrazia non aiuta l’essere umano a vedere la crisi come un momento positivo. E la società consumista rifugge il pensiero della morte, visto che evidentemente chi riflette sulla finitezza umana consuma di meno. Questo contribuisce oggi a non dar spazio alla meraviglia filosofica. Ma io non faccio un discorso storico. Non mi interessa. Per quanto certo mi interessa moltissimo il tempo in cui vivo, un tempo di assoluta decadenza.

Una soluzione potrebbe essere quella di scavalcare, meglio abbattere, la visione antropocentrica? Comprendere (in che modo) la nostra umanità a partire proprio dalla nostra animalità? E del resto “Cosa siamo noi se non animali mortali”?

Non è tanto la questione dell’antropocentrismo che ci allontana dal confronto con noi stessi in quanto animali mortali. Piuttosto semmai è l’antropomorfizzazione degli animali – oggi dominante – a ritorcersi contro la consapevolezza necessaria a sentirci parte del regno animale. Mi spiego. Oggi si fa un gran parlare di diritti degli animali. Ma chi si fa sostenitore di queste tesi – spesso peraltro con molto fanatismo – non ha vero rispetto dell’alterità animale di fronte all’animale dotato di logos che è l’essere umano. I cosiddetti animali da compagnia sono disneyzzati: vestiti, chiamati a tavola, imboccati, si parla con loro come se avessero parola, si producono gelati per cani, dolci per gatti, e una valanga di idiozie con cui si sta trasferendo l’umano nell’animale. Ma l’animale è altro, non parla, non risponde, non critica. Certo, a me pare chiaro che sia proprio per questo che lo si preferisce all’umano. Però comunque stiano le cose, il fatto è che l’umano, perdendo un rapporto sano con l’animale, perde anche il confronto con la propria animalità e con la mortalità che tutti ci accomuna.

In un mondo sempre più (drammaticamente) incapace di ascolto, cosa può la scrittura “contro” la “penosa” (sempre meno pensosa) solitudine (alienazione) esistenziale?

Mah, io non mi chiedo cosa posso fare. Io scrivo perché amo scrivere e cerco di scrivere di ciò che penso e sento e cerco di continuare a pensare e sentire. Ovviamente certe scelte si pagano. Si è più soli di quanto si creda. Ma io sono anche convinto che non si possa fare altrimenti. E che il vero problema non sia cosa noi possiamo fare, ma il senso. La scrittura nutrita dalle ambizioni, la scrittura vuota di pensiero, lontana dalle grandi questioni esistenziali e vicina all’ombelico di vite che a me paiono tanto individuali quanto insignificanti, be’ quella scrittura per me ha talmente poco senso che non ne capisco l’esistenza stessa. Io sono appassionato di letture difficili e trasformative. Spesso si tratta di libri respingenti e infatti leggo molto lentamente. Ma appunto sono libri che restano. Quelle letture che invece mi intrattengono e mi intrappolano finiscono subito nel dimenticatoio e in sostanza, alla fine, mi hanno soltanto fatto passare il tempo. Ma il tempo è l’unica vera ricchezza. Perché devo passarlo? Per sbrigarmi a arrivare alla morte? Allora preferisco passarlo con gli amici, a tavola, in chiacchiere simposiali.

Da Eraclito a Parmenide, a Empedocle, cosa possono (o potrebbero) i “classici”?

Quelli che lei cita sono i sapienti antichi a cui ho dedicato il libro. La nozione di classico è molto più ampia. Restando a quei tre, io credo che la loro potenza stia nell’espressione oscura, ambigua, enigmatica. Quando li leggiamo a scuola non ci capiamo nulla e la sensazione che ci procurano i manuali, così schematici, così standardizzati su interpretazioni che chiariscono e semplificano, non è una buona sensazione. Ci pare che tutto sia stato impoverito. Perché? Perché quelle parole non contano solo per ciò che dicono ma anche per come lo dicono. Per lo spaesamento in cui ci gettano, per la vertigine che creano, per quella sensazione di aporia e di meraviglia. Sono parole che ci mettono sulla strada della ricerca inesauribile e che ci aprono dimensioni di sacralità, di divinità. Nessuno schema può esaurirne la ricchezza. Qualsiasi schema anzi finisce per distruggerle.

Ma questa ricerca dove porta? Lei come intellettuale se lo domanda in questo libro?

Certo. Il fondamentale approdo è la nostra animalità mortale, come dicevo. Questo significa: sentire la nostra appartenenza al ciclo della natura, al tempo ciclico in cui siamo immersi. La visione giudaico-cristiana ci ha educati a guardare al tempo su una linea retta, passato-presente-futuro, verso il giudizio, o verso il trionfo della ragione secondo la visione illuminista. Ma il modo di vivere il tempo degli antichi era circolare. Si nasce, si cresce, si raggiunge un culmine, si vive la decadenza, si muore e questa morte lascia spazio a nuova vita. Nessun trionfo alla fine della linea retta, ma ritorno costante, nonché perenne consapevolezza della nostra finitezza. Sono questioni che dovrebbero interessare chi parla oggi di antropocene e chiaramente constata il fatto che una crescita infinita è rovinosa e suicida. Però mi pare che sia diventata una moda. Ne parla chiunque, senza l’intelligenza dei primi studiosi, senza più la fatica della riflessione. Si sbandiera la parola antropocene e via.

Per concludere, con Esenin le chiedo: uno scrittore “può restare indifferente quando la libertà è colpita” e quindi pensare di professarsi “utile” nella totale cecità sul “presente”?

La libertà è colpita dal monopensiero globale, dalla lingua della correttezza, da un’idiozia devastante nel vero senso della parola, visto che “idiota” anticamente è chi fa prevalere il privato sul pubblico, ovvero la propria visione individuale, piena di vanagloria, su quella animale/mortale. Non è questione di indifferenza. La questione è tenere duro e pensare con la propria testa, non inseguire le mode, non guardare al successo di certe tendenze per cercare di approfittarne. Lo scrittore deve scrivere i suoi libri per esplorare ciò che ha bisogno di esplorare come essere umano. Allora magari sarà anche utile a qualcuno. Non tanto per ciò che dice, ma per la passione vera, per il vero desiderio. Siamo sempre lì. Ciò che conta è quel che lo scrittore non dice. Il buio in cui lascia il lettore. Ma non per furbizia, perché ignora cosa possa riempire quel vuoto e illuminare quel buio. Bensì perché è il buio che ci spinge a trovare la nostra luce. “L’uomo nella notte accende una luce a se stesso”. Sono parole di Eraclito detto l’Oscuro.

 

(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 28.09.2023, pagina Cultura).

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