“Non sono io a scegliere il momento. Si impone da sé e mi ordina di scrivere”

Eliza Macadan - copertina

Parola d’Autore

La più difficile missione. Ma è possibile, con difficoltà, parlare di ciò che scrivo, parlare della mia scrittura. Sono una giornalista che ha disertato la professione, in qualche modo, poiché da quasi 5 anni non svolgo questo lavoro regolarmente. Ma prima del giornalismo c’è stata la poesia. Campi incompatibili nel breviario dei mestieri. Ed è così. Spero di non tradire le aspettative dei lettori de l’EstroVerso dicendo subito che non elencherò qui le mie letture, gli autori che mi hanno formata, o parlando di quanto o come un tal libro mi abbia cambiata o di quanto è essenziale avere maestri di grande tenuta intellettuale e spirituale. Ho debuttato intorno ai vent’anni, anche se scrivevo più o meno dai sedici: intendo dire scrivere in questo modo, in modo cosciente. Provengo da ciò che comunemente chiamiamo “cultura marginale”, avendo una lingua marginale: questo incide fortemente sulle scelte che si fanno. Più che incidere, limita queste scelte. Per fortuna mi sono dotata di destrezza nell’apprendere le lingue straniere – nel corso degli anni ho parlato russo, francese e italiano. L’italiano è stata una scelta di maturità, del tutto consapevole, presa da una specie d’amore per questa lingua e per quello che rappresenta. Il mio approdo italiano è stato come un ritorno a casa. La professione mi aveva portata a vivere in Italia, anche se non ero costretta ma avrei potuto astenermi dallo scrivere versi. Invece ho scelto di mettermi alla prova e di andare incontro a un nuovo debutto poetico, in lingua italiana. Gli anni ’90 stavano finendo. Ed è andata bene. Vari concorsi e premi mi hanno confermato quanto cercavo di capire: se la mia poesia potesse venir compresa, nella sua essenza, anche in lingua italiana. Quindi il debutto in volume nel 2001 e poi una lunga pausa per mettere ordine nella mia vita, per fare delle scelte o, per meglio dire, valutare una scelta fra i sì e i no. Nel 2012 è uscito con la Joker un volume dal titolo Paradiso riassunto e quest’anno è stata la volta de Il cane borghese con La Vita Felice. Tra i due volumi c’è, però, una lunga distanza in materia di evoluzione della scrittura. Io non la so spiegare nei modi tipici della critica letteraria, ma la sento. Sento che qua il “messaggio” osa molto di più, è più esplicito, pur rimanendo dentro un universo linguistico ed emozionale che ritengo mio. Di questi tempi, mi riferisco agli ultimi trent’anni, la poesia ha voluto ad ogni costo andare in un’altra direzione. Ed è riuscita a farlo. Ma senza che se ne accorgesse, il pubblico è rimasto da un’altra parte, per scelta degli autori oppure per la comune incapacità di proseguire insieme. Le tante e varie teorie sulla poetica rimangono nelle aule delle università, nei laboratori, e negli archivi. Quello che la critica propone e convalida in un determinato momento temporale – e qui mi riferisco anche alla critica di servizio – si dimostra valido e circoscritto in un ambiente quasi artificiale, dove il pubblico manca, a cui si affianca un secondo ambiente, per lo più frequentato da snob di molteplici, e numericamente rilevanti, nature. Quasi sempre mi rifiuto di parlarne perché so che questi temi e pensieri sono mal visti dalla stragrande maggioranza. Ho esitato anche questa volta. Credo di essere venuta al mondo inquieta, strillando e protestando. Credo che questo stato d’animo e di mente non sia passato mai. In qualche modo, quello che scrivo è una sorta di protesta. Contro tutto. A volte questa protesta cambia tono, fatica a tenere alta la tensione, e allora qualcosa cambia anche nei versi. Oppure cambia il frammento di realtà che prendo di mira – o che mi prende di mira. Quando scrivo, non sono io a scegliere il momento. Il momento si impone da sé, mi ordina di scrivere. Io devo trovare o inventare soltanto le parole per sorprendere quello che il momento mi fa vedere o sentire. Scrivo spesso come se mi dettassero, in una sorta di trance, come se fossi preda della mano che scrive. Come se fossi un filo tra il qui e l’altrove. Per sdrammatizzare un po’, potrei dire che faccio parte di una seduta spiritica dove resto sola con i testi sul tavolo. Poi, però, ci si rende conto che qua e là si deve intervenire, aggiustare e soprattutto togliere, tagliare, lasciare lo stretto necessario. Ai tempi del cuneiforme elettronico non possiamo permetterci di scrivere intere lenzuola di segni dove cercare il senso per arrivare ad ogni costo a un messaggio. Nella società odierna si vuole tutto e subito. Il poeta non può sottrarsi a questa realtà. Di questi tempi, credo che il “messaggio” (credo, lo si è capito, all’arte e dunque alla poesia comunicativa) debba essere forte, chiaro, di impatto, memorabile, scuotente e perciò breve. Non so per quanto ancora potrò scrivere. Spero per molto. Quando non scrivo, sono in preda all’angoscia. Quando scrivo, sono in preda all’ansia. Siamo tutti, alcuni di più e alcuni di meno, esseri incompiuti. Ed è questa incompiutezza che ci spinge a divenire. Divenire umani nella misura che ci è stata permessa. Non vorrei lasciarmi sfuggire un dettaglio – non leggo molti libri di poesia. Non leggo indistintamente. Non leggo in maniera compulsiva. Mi lascio guidare dai miei sensi, vado verso quei testi che, in qualche modo, sento un po’ anche miei, familiari, affini alle mie idee, al mio modo di stare nel mondo. Questo modo di essere lo si apprende in giovane età, nell’infanzia e nella prima adolescenza. Noi, quelli di oggi, siamo quelli di prima in aggiunta al vissuto precedente. In questo vissuto entra, indubbiamente, una mole di letture e di sapienza. Ma importantissimi sono anche i vuoti rimasti. È da lì che scoviamo bellezze indicibili. Quello che mi sta più a cuore è che la mia poesia arrivi alla gente, a più persone possibile. Mi fa felice pensare a ciascun lettore che abbia aperto il libro e abbia letto il testo dalla tal pagina a un’altra. Non importa che il libro sia acquistato. Mi basta che la gente passi davanti allo stand di una fiera o allo scaffale di una libreria, e che dia un’occhiata. Io adoro offrire i miei libri. Mi capita spesso di comprarli per regalarli. È una gioia. È semplicemente la naturale condizione della poesia. E dunque a che vale l’accanimento del vendere? Si dovrebbe istituire una tassa per offrire libri di poesia. Chi scrive poesia sa che non guadagnerà mai un soldo per sopravvivere. Così è stato e così sarà. Parola d’autore.

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