Essere e angoscia
“Essere o non essere”: sembra che il problema sia questo. L’alternativa, tuttavia, non aiuta: se si vuole ammettere la possibilità evocata dalla filosofia esistenziale di comprendere e realizzare l’essere, la contraddizione andrà risolta e le due dimensioni dovranno coesistere o, almeno, si dovrà tentare di dare giustificazione al problema non solo in sede speculativa ma anche sul piano del reale umano.
“Esistere è per l’uomo il porsi in rapporto con l’essere di se stesso che si realizza come problema” (E. Paci, Il nulla e il problema dell’uomo, Taylor, Torino, 1967, p. 55).
L’essere, dunque, si pone in termini di problema, come Platone aveva già intuito nel suo Sofista. La dicotomia tra idea e mondo fisico tuttavia non viene sciolta e l’essere “per quanto abbia il colore dell’essere ideale, d’altra parte è pur sempre legato nella maniera più stretta al mondo dell’esistente” (E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, La Nuova Italia, Firenze 1961, p. 3).
Da queste prima battute l’essere appare diviso tra spirito e materia. Sembra che allo spirito sia possibile attribuire “un’attività originaria formativa e non semplicemente riproduttiva. Essa non esprime in maniera meramente passiva un’entità esistente, ma racchiude in sé un’energia autonoma dello spirito attraverso la quale la semplice esistenza dei fenomeni acquista un ‘significato’ determinato, un peculiare valore ideale” (E. Cassirer, Ibidem, pp. 9 –10). L’essere si presenta allora come attività originaria formativa che, tuttavia, ancora non si sostanzia se non in quanto idea o categoria. Questa attività formativa si presenta come attribuzione di significato, ma ignoriamo come il significato venga assegnato e come si risolva il problema della coesistenza con il nulla.
Quanto al nulla, e indirettamente all’essere, la chiave di accesso sembra essere l’angoscia. Kierkegaard avverte che dall’angoscia non si sfugge e che ogni uomo dovrà affrontare il naufragio della propria esistenza. Non si evita ciò che il filosofo danese definisce imperfezione (il peccato): si tratta di condizione insita nell’esistenza segnata dall’angoscia. Dunque, il nulla, che provoca angoscia, è sempre di fronte all’essere ed è impossibile deviare dal sentimento angoscioso di nientificazione: questa la risposta emozionale all’esistere.
Anche Heidegger approda all’angoscia per definire l’essere e il nulla. L’essere deve uscire da sé, porsi di fronte a sé e osservarsi per conoscersi ma, nel momento in cui l’essere si pone al di fuori di sé, esso è nel nulla e nell’angoscia.
Più che una soluzione, la posizione di H. sembra un rompicapo. Paci espone il problema come segue. “L’esistenza è caratterizzata dal fatto che in essa, per comprendersi, l’essere diventa nulla” (E. Paci, op. cit., p. 164). Sembra di trovarsi al punto di partenza. Come può l’essere uscire da sé e diventare nulla; e cos’è questo nulla che l’essere stesso pone? H. risponde che il nulla è l’uomo prima che l’essere si manifesti in lui per conoscersi. L’essere utilizza l’uomo per conoscere se stesso ma, nel momento in cui lo fa, esso non è più essere ma nulla, perché il prezzo della conoscenza di sé è l’ingresso nel tempo e dunque nella finitudine. L’essere che si conosce finisce per essere un nulla per il nulla che tuttavia, nel finito del tempo, esiste. Sia come sia, è innegabile che la posizione di H. rimanda a un principio primo che, temporalizzandosi, pone se stesso e il mondo. La metafisica non è superata, come H. sperava. Inoltre, non viene aggirato il principio di non contraddizione che, da Aristotele in poi, domina nella filosofia occidentale. Per la ragione l’essere può essere soltanto essere e il nulla appare incomprensibile. Come può allora ciò che è essere risolversi attraverso l’uomo che è nulla? In un solo modo: il nulla è mancanza a essere.
Considerato dal punto di vista dell’essere il nulla è nulla perché lo chiede e manca dell’essere, perché manca della necessità dell’essere, perché è ciò che ha bisogno dell’essere. È quindi l’essere che pone il nulla. E lo pone in quanto l’essere è presente nel nulla come assenza. (E. Paci, op. cit., p. 115).
Non è allora il nulla che genera angoscia, ma la mancanza d’essere. L’essere è richiesta di esistere ed è in questa richiesta che avviene il passaggio dal nulla all’essere. Ciò significa che occorrerebbe invertire i termini del problema e pensare che non è l’essere che usa l’uomo per esistere nella conoscenza ma è l’uomo che, conoscendo, pone le basi dell’esistere ed esce dalla dimensione del nulla attraverso la fondazione nel finito del soggetto e del mondo.
Tornando al problema iniziale, quel che si può dire per ora è che l’essere è mancanza e finitudine, angoscia da cui il soggetto che prende coscienza (e non l’Ente) è afflitto. È allora il soggetto che dà sostanza all’essere, traendolo dal nulla dell’incoscienza e immettendolo nel flusso soggettivo del tempo. Non si tratta di un essere per la morte, ma di un essere per la conoscenza che sa di dover morire. L’essere è allora qui, nel nulla della mancanza. Il rapporto tra essere e nulla – per usare questi termini – risponde alla domanda nietzschiana di un uomo che sia un oltreuomo, un tentativo continuo di trascendersi, perché l’essere non è dato, ma è una possibilità sempre da conseguire per spezzare la ripetitività di un eterno fluire senza senso né soggetto (nulla).
La presenza del nulla: l’inconscio
L’angoscia svela una dimensione dell’essere che è percezione (sentimento) di mancanza. Questa mancanza, e il timore angoscioso di nientificazione che suscita, è più vicina di quanto si possa credere. Sembra infatti che il nostro io sia sottoposto a “un triplice servaggio” (S. Freud, “L’Io e l’Es”, in Opere 1917-1923, vol. IX, Boringhieri, Torino, 1977 p. 517): verso l’esterno, verso il Super-io e verso l’Es. Se così è, l’io si pone come “la vera e propria sede dell’angoscia” (S. Freud, Ibidem, p. 518), e, per sopravvivere, deve continuamente porsi nella condizione di oggetto d’amore per gli scomodi compagni del se stesso. In questo modo l’inconscio irrompe sulla scena in un rapporto con l’io che si profila per lo meno come sentimento di angosciosa dipendenza.
Inoltre, sotto l’influsso di Schelling, Freud (S. Freud, “Al di là del principio di piacere”, in Opere 1917-1923, vol. IX, Torino, Boringhieri, 1977) rompe la pretesa univoca della logica e ammette la duplicità della natura umana anche a livello strutturale. Se persino la base pulsionale è duplice, se al desiderio di vita (Eros) si oppone un desiderio opposto (Thanatos), il principio di non contraddizione naufraga una volta di più e l’essere si specchia nel fondo del suo niente. Anche il desiderio, motore dell’umano, ha un volto doppio che si manifesta come possibilità di rappresentarsi ed acquisire senso psichico, oppure degradare verso il non senso e l’insignificanza. Si potrebbe allora suggerire che, per trovare il nulla, l’essere non deve fare molta strada: basta guardare in sé. L’io deve infatti confrontarsi col nulla dell’inconscio e dell’aspetto mortale del desiderio; un nulla in ogni caso condizionante, capace di costringere e atterrire, muovere verso la rappresentazione (Eros) o degradare nell’insignificanza del godimento immediato (Thanatos). Un nulla che, comunque, non è certamente nulla, per lo meno negli effetti.
L’angoscia diventa allora davvero una condizione umana legata alla duplicità dell’essere che è esistere e nientificazione, domanda e mancanza, soggetto che ricerca e vuoto, coscienza e inconscio. Niente il nostro io teme di più che il nulla di se stesso, quel non io dell’inconscio contro il quale alza difese estreme, senza però mai liberarsene davvero, perché se l’essere vuole essere deve necessariamente ammettere il non essere come parte di sé e non negarlo o fingere che non esista, relegandolo in un nulla alieno e indimostrabile. In quest’ottica, il non essere è l’inconscio che la coscienza non può cancellare perché in esso si fonda e ad essa si presenta non soltanto nei sogni ma nelle manifestazioni più impensabili e svariate della quotidianità, oltre che attraverso i sintomi che sono espressione di un malessere che è senso negato. Sotto quest’ultima accezione, l’inconscio è significato possibile, domanda di senso e, dunque, richiesta di colmare la mancanza a essere. Fammi andare dal non essere (dell’inconscio) all’essere (della coscienza): un cammino tortuoso, nel corso del quale uno dei pericoli più frequenti è quello di identificare l’essere con la sola coscienza. Non è così.
L’essere come visione
Ogni mitologia contiene cosmogonie presenti in tutte le culture ed epoche del mondo. In esse, un eroe semidivino crea il mondo dal nulla delle tenebre, plasmando il caos o uccidendo il mostro del non senso, qualunque forma esso assuma. L’atto di creazione è luce, un generarsi della coscienza soggettiva dal buio profondo dell’inconscio personificato sotto i più vari e oscuri aspetti. L’io nascente crea forma, ma il nulla non scompare per sempre come l’eroe fondatore vorrebbe; la creazione andrà sempre ripetuta, riscattata, salvata da minacce costanti: la luce è comunque in pericolo e tutti gli eroi della storia simbolica umana sono fondatori e redentori a un tempo. Questo lascia pensare che quell’atto di creazione sia imperfetto; in esso ci deve essere qualcosa di sbagliato. È sbagliato l’atteggiamento (hýbris della coscienza) che tenta di negare o comunque controllare una volta per tutte il fondo oscuro del “nulla” da cui si sforza di differenziarsi. La Madre uccide se la neghi o tenti di relegarla a livello del niente; se la integri nel senso soggettivo del se stesso, la Madre non smette di nutrire.
35000 anni fa (forse anche di più), nel buio di grotte che affondano nella terra, l’essere affiora dalla Grande Madre dell’inconscio e si rappresenta dal profondo magmatico del nulla. La coscienza dell’io nasce dall’Es e si evolve come funzione rappresentativa/conoscitiva e relazionale. A un certo punto della nostra evoluzione, per ragioni di cui non si può qui dare conto, l’uomo non si è più orientato nel mondo su base percettiva/istintuale. Dall’Es si è svolto un organo di percezione, rappresentazione e conoscenza sempre più raffinato, fino ad arrivare alla capacità di rappresentare il mondo. Non basta: l’io ha anche imparato a rapportarsi con la propria interiorità, ponendo le basi della rappresentazione di sé e del fondo inconscio dal quale promana: senza questo figlio angosciato, la Grande Madre sarebbe solo nulla. Come rappresentazione di questa dualità e di questo rapporto nascono i miti e le cosmogonie (si veda, ad esempio, J. Campbell, L’eroe dai mille volti, Feltrinelli, Milano, 1958; o ancora E. De Martino, Il mondo magico, Boringhieri, Torino, 1948). Da qui le prime rappresentazioni umane e del mondo nelle grotte dove inizia la storia (Si veda J. Campbell, Le maschere di Dio, Bompiani, Milano, 1962), nelle quali possiamo ammirare l’atto creativo per eccellenza: la nascita della psiche umana che crea un riflesso di sé e del mondo.
Fa impressione pensare che tutto ciò sia accaduto nel profondo della terra, in quelli che possiamo considerare veri e propri santuari dell’essere, forse durante lo svolgimento di riti magici collettivi atti a preservare lo spirito della caccia, e dunque la vita. Personalmente, preferisco pensare a fenomeni isolati, uomini soli con il buio di se stessi al quale tentavano di dare forma. Uomini spauriti, angosciati, ma comunque capaci di far fronte a quel primo manifestarsi della domanda a esistere e, in tal modo, tentare di dominare l’oscurità delle forze inconsce. In quegli uomini traspariva un “dio” e forse essi credevano, forse temevano, di essere afferrati dal divino. Se ciò è verosimile, quegli uomini stavano sperimentando la realtà di un accadimento psichico, quel fenomeno che Cassirer descrive e definisce formazione delle divinità momentanee e che rappresenta una vera e propria nascita di una prima modalità di coscienza (E. Cassirer, Linguaggio e mito, Il Saggiatore, Milano, 1961).
Ogni impressione che colpisce l’uomo, ogni desiderio che si agita in lui, ogni speranza che lo attrae, ogni bisogno che lo stringe, può in tal modo operare su di lui in senso religioso. Se l’impressione istantanea concede all’oggetto dinanzi a noi, allo stato in cui ci troviamo, alla forza che ci sopraffà, il valore e per così dire l’accento della divinità, ecco che viene sentito e prodotto il dio momentaneo. Egli sta dinanzi a noi nella sua immediata singolarità e unicità, non come parte di una forza la quale si possa manifestare qui come là, in diversi momenti del tempo e in diversi soggetti, molteplice eppure omogenea, ma come qualcosa che è presente solo qui e ora, ad un unico soggetto, nell’indivisibile momento della vivente esperienza. […] Quanto più largamente progredisce lo sviluppo spirituale e lo sviluppo della civiltà, tanto più il rapporto dell’uomo col mondo esterno si trasforma da passivo in attivo. L’uomo cessa di essere il semplice trastullo di impressioni esterne: egli interviene col suo volere nell’accadimento per regolarlo secondo il proprio desiderio e il proprio bisogno […] Ma, come dapprima si rendeva consapevole della propria passività, così ora l’Io può in cambio rendersi consapevole della propria attività solo mediante il proiettarla fuori di sé e porsela innanzi in una salda raffigurazione intuibile (E. Cassirer, op. cit., pp. 34 – 35).
L’essere, come principio psichico, per conoscersi deve porsi fuori da se stesso, nel grande nulla del mondo dove potrà rispecchiarsi. È il fenomeno psichico della proiezione, ben noto a chi frequenta studi analitici. È un fenomeno all’apparenza dispersivo, senz’altro difensivo, ma, se elaborato, è comunque una possibilità di conoscenza.
Questi uomini muti, nascosti, forse temuti dal resto del clan, sono i padri dei nostri concetti filosofici più elevati, i veri fondatori, coloro nei quali per la prima volta si è manifestato un processo psichico, nei quali la psiche si è formata; con essa, il mondo del soggetto. In quelle grotte, per usare un’espressione di Heidegger, l’essere si è posto nel nulla dell’uomo che comincia a osservare e del mondo esterno avvolto nel silenzio del non senso; in quelle grotte e in quegli uomini è nata l’esistenza e la possibilità di dare senso. In quelle grotte, è l’uomo che ha posto, anche se involontariamente, l’essere.
Verso la storia
Fammi andare dal non essere all’essere. A livello proiettivo l’essere è immagine e sentimento (stupore e angoscia). Quando, nel corso dell’evoluzione, quelle immagini e quelle impressioni verranno nominate, l’essere sarà linguaggio.
Fammi andare dal non essere all’essere. “Se ogni linguaggio ha la sua radice nel sentimento e nelle sue manifestazioni dirette e istintive, se trae origine non dal bisogno di comunicazione, ma da grida, da suoni, da selvagge voci articolate, un simile complesso di suoni non costituisce mai l’essenza, mai la ‘vera’ forma spirituale del linguaggio. Questa forma nasce solo quando si dimostra attiva una nuova ‘facoltà fondamentale dell’anima’ che distingue fin da principio l’uomo dall’animale” (E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, op. cit., p. 111). Questa facoltà dell’anima è la riflessione. Fammi andare dal non essere all’essere. L’uomo “dimostra riflessione quando partendo da tutto l’incerto sogno delle immagini che passano per i suoi sensi si sa raccogliere in un momento di veglia, si sa fermare volontariamente su di una immagine, sa farne oggetto di chiara e più calma considerazione e sa isolare dei caratteri in modo che si tratti proprio di ciò, di questo oggetto e di nessun altro” (E. Cassirer, Ibidem, p. 112).
Fammi andare dal non essere all’essere. “L’istinto della riflessione è ciò che costituisce l’essenza e la ricchezza della psiche umana. La riflessione modella il processo di stimolazione e ne guida l’ìmpulso in una serie d’immagini, la quale infine, quando l’impulso è sufficientemente intenso, viene riprodotta. La riproduzione […] si verifica in forme diverse: o come espressione linguistica diretta o come espressione del pensiero astratto, come azione rappresentativa o come comportamento etico, come ritrovato scientifico o come rappresentazione artistica… la riflessione è l’istinto civilizzatore ‘par excellence’, e la sua forza si palesa nell’affermazione della civiltà di fronte alla nuda natura” (C.G. Jung, “Determinanti psicologiche del comportamento umano”, in Opere, vol.VIII, Boringhieri, Torino, 1976, p. 136). In questo senso l’essere è cultura.
L’essere è allora un impulso a riflettere che devia dal movimento cieco della soddisfazione immediata. Una tensione continua verso un oltre mai raggiungibile davvero, un senso sempre da assegnare, volta per volta, nello sforzo di esistere. Nel suo perenne inseguimento, l’uomo è oltreuomo nei termini di Nietzsche, ma non pura volontà: la base istintuale non si cancella, come la ragione vorrebbe.
L’uomo esiste almeno come un alcunché che viene spinto verso una qualche cosa e, al tempo stesso, come un alcunché che si raffigura una qualche cosa […] L’archetipo è spirito o non spirito, e quel che in fin dei conti esso sarà dipende per lo più dall’atteggiamento della coscienza umana (il corsivo è mio) (C.G. Jung, Ibidem, pp. 223–224).
In questo senso, l’essere è sintesi.
L’esistenza non può allora essere pensata come un eterno fluire dal nulla e verso il nulla. Il pensiero occidentale, che da duemila anni si fonda sul divenire eterno del tutto, si rinchiude in una credenza che è vera e propria fede che tuttavia smentisce le proprie basi attraverso la creazione di Immutabili per sfuggire l’angoscia di un moto involontario da e verso il nulla (si veda E. Severino, La tendenza fondamentale del nostro tempo, Adelphi, Milano, 1988). L’essere non è allora dato, ma trascendimento del dato nel simbolo e nel senso sempre sfuggente e rinnovantesi cui il simbolo rimanda con la sua enorme forza capace di informare intere epoche e muovere i destini di milioni di uomini, nel bene e nel male (si pensi, ad esempio, ai mutamenti mondiali provocati dall’insorgere del simbolo cristiano o di quello nazista). La storia appare allora come un movimento dell’essere attraverso i simboli che genera. L’essere è storia: a noi darne rappresentazione consapevole.
Uno sguardo nel nulla
Vorrei ora soffermarmi sull’apparente insignificanza di quelli che appaiono fatti cui tutti siamo abituati e che consideriamo normali, quando non li consideriamo affatto. In quei fatti si annida il nulla, la non domanda, la non problematicità, la deriva mortale del Nulla.
Dunque, se qualcuno decide di farsi i comodi suoi e di fregarsene altamente della morale e delle regole, ignorando allegramente ogni senso di responsabilità e il rispetto dei limiti cui la civiltà rimanda; se questo qualcuno, nella sua onnipotenza patologica da narcisismo primario (praticamente un non nato nella psiche con l’aggravante, nel caso specifico, di evidenti tratti di psicopatia), decide di trasgredire gli elementi basilari del vivere comune e rifiuta ogni norma, ponendosi al di sopra della Legge simbolica del Padre che castra il desiderio onnipotente per perdersi direttamente nella Madre/Morte del godimento puro, acquisendo il potere per farlo grazie alla complicità di una massa amorfa di nullità che, senza quel qualcuno, rientrerebbero nell’anonimato del mondo irriflesso e indifferente; se non contento – e libero nella sua incoscienza da qualsiasi fonte etica (che non possiede) – propaga come esempio da seguire uno stile di vita edonistico e godereccio oltre i limiti della decenza, tanto che la stessa Thanatos, se non ci sguazzasse, resterebbe allibita; se quel solito qualcuno si permette di blaterare che le istituzioni sono un intralcio da eliminare e che il parlamento è soltanto una perdita di tempo; se dunque propaga idee dittatoriali che, per fortuna, non ha la capacità di mettere in atto (tanto a lui basta godere per restare lontano dall’angoscia ed evitare il suicidio, che comunque avviene in altre forme); se poi qualcun altro glielo lascia fare per oscuri motivi di convenienza politica e altrettanta pochezza morale psichica e, per calcolo di convenienza riflessa, si impegna pure a studiare il modo di evitargli la galera. Se qualcun altro ancora si rompe le palle e pensa: “perché lui sì e io no?” e allora, dopo aver fatto copia e incolla di alcuni discorsi di Hitler del ’36, sale sul tetto di un’automobile e comincia a urlare e un’altra massa di deformati mentali lo sta a sentire e gode della rabbia del rabbioso e della propria che intanto cresce come la arcaicità interiore che li guida (si legga H. Kohut sul contagio della massa da parte del leader patologico); se insomma ci si identifica col nulla e un popolo nullificato conferisce ai nullificatori delega per nullificare, con la conseguenza che quando si va a votare il nulla vince – cioè non vince nessuno (il nulla, appunto) – e chi ha avuto la possibilità di fare qualche cosa, essendo una nullità, perde tempo con altre nullità non venendo ovviamente a capo di nulla; e intanto il nulla gaudente se la gode perché gli riconsegnano un campo dove nulleggiare e diffondere il nulla del suo esempio mortale tale e quale a prima (a proposito, leggete anche qualche saggio di Kohut e Kernberg sul narcisismo patologico e la rabbia narcisistica). E dato che non basta, se i nostri figli crescono in questo clima di cultura arcaicamente nullificata e non pensano, non studiano, non leggono, non sentono, non amano, non sviluppano un adeguato senso di identità che non sia qualche forma di appartenenza a gruppi amorfi o firma di stilista sulle mutande perché non abbiamo insegnato loro a distinguere e nominare le emozioni (magari leggete anche qualcosina di Galimberti sul nichilismo della società in L’ospite inquietante), e finiscono col convogliare tutte le loro energie nella fuga dall’angoscia che abbiamo loro trasmesso con la nostra irresponsabilità, e allora passano il tempo a ubriacarsi e riempirsi di droghe e psicofarmaci, a praticare un sesso animale, così, tanto per non amare (fa male…), magari sbattuti tutto il giorno su qualche scaletta o piazzetta o muretto e rientrano a casa, nelle condizioni descritte, alle sei del mattino, se prima non si schiantano con le auto e le moto che procuriamo loro per ammazzarli (inconsciamente, si intende; in realtà perché siamo già morti noi); e glielo lasciamo fare perché non siamo capaci di fronteggiare l’angoscia che questa società e questa famiglia, questi figli, noi stessi e questo modo di (non) essere ci provoca; e allora ci rincoglioniamo di lavoro, chiacchiere da bottega, compere compulsive e cazzate domenicali, guardandoci a nostra volta dal leggere, pensare, sentire… insomma se ci tuffiamo nel nulla tale e quale ai nostri figli cui abbiamo lasciato che venisse rubato il futuro, per non parlare del presente e del passato (che dovremmo essere noi) e il bene della coscienza, se tutto questo è vero, non resta che ammettere il nulla di noi stessi e tentare almeno di assumersene la responsabilità. Se succedesse, l’essere sarebbe Norma. Non vi preoccupate: non succederà e potremo continuare a morire tranquilli.
Fare l’essere
Kant avvertiva che la cosa in sé non è mai conoscibile; essa è qualcosa che ha bisogno di essere attuata attraverso il concreto dell’azione morale (Norma) che, come azione umana, è azione storica che non può prescindere dalla responsabilità del fare. La cosa in sé (l’essere) è allora qualcosa che si vive giorno per giorno e che diventa reale nel fare dell’uomo che fa l’essere.
A questo punto, posso tentare di uscire dall’equivoco che la parola “essere” inevitabilmente ingenera. Non si tratta di ricercare un fondamento ontologico, che si umanizzi o meno: essere è la possibilità del soggetto di costituirsi sul piano consapevole nel limite del tempo e della storia.
Tuttavia per esistere non basta essere nel tempo: occorre fare il tempo e il tempo, come l’essere, è soltanto una possibilità. Il tempo è la mia gabbia: io sono prigioniero e gabbia. Se non lo fossi, non esisterei. Nella gabbia del tempo, io ho un problema: fare un soggetto che sia. Fare la mia fragilità, perché se l’essere non è dato può sempre essere perduto. Aggrapparsi allora alla mancanza per evitare di essere l’altro volto, sempre possibile, del nulla. Fare, per questo, immagine e pensiero e, come gli antichi artisti di Chauvet, Lascaux, Trois Fréres e Altamira, dipingere il nostro stupore e la nostra angoscia sulle pareti del vuoto per nominarlo e poi pensarlo, per fare essere quello che non è. Fare dunque arte, linguaggio, scienza, coscienza, amore, cultura, storia. Fare essere per sfuggire dal godimento folle dell’immediato cieco. Fare simbolo, perché l’essere è simbolo e, per questo, continuamente e sempre un non ancora che tuttavia è storia.
Il fondamento è deciso dalla libertà e dalla responsabililtà: esso può sempre non realizzarsi e in tal caso il mondo è possibilità indifferente e cioè equivalenza di essere e nulla, di bene e di male, di verità e di errore […] In altri termini, l’essere è storicità e la storicità è lotta contro la dispersione, è l’impegno della libertà e del valore; il senso fondamentale della struttura della storia è il compito di mantenere la possibilità del possibile, di rendere sempre possibile l’essere autentico e cioè ciò che deve essere, il valore (E. Paci, op. cit., p. 149).
Fammi andare dal non essere all’essere. In quest’epoca di disperata dispersione in cui mi è dato vivere, fammi essere, esistere, resistere, almeno nel senso di mancanza.