“Quando scrivo in poesia mi sento inquilino di uno stato di grazia”

 

l’autore racconta

Sono da due anni in pensione, anche se mantengo un corso magistrale attivo, giusto per allenamento. Da quando ho più tempo per me, anche la scrittura, che ho diversamente avviato nel tempo, mi si è fatta più da presso, incalzandomi con molta più forza di prima. E ho così avuto esperienza di ciò che finora avevo sentito affermare da parte di certi autori frequentati: l’essere stati spinti da un’urgenza, l’essere stati più parlati che aver voluto parlare. La scrittura, insomma, non propriamente come “ispirazione” (non dunque tutta risolta in sé e tutta compiuta), ma come mandato irriflesso, come prescrizione. Sperimentato, ad esempio, per quanto riguarda la poesia, la precedenza del suono e dell’immagine, che coniano la parola e la gettano nel tessuto vivo del testo (lo “dittano” dentro). Ciò non esclude ovviamente – anzi, lo pretende – il lavoro di lima, di aggiustatura, di giuntura, di integrazione; di “togliere il soverchio”, come voleva Michelangelo; ma già nasce il nucleo predisposto, predefinito, dono di ciò che non è possibile ammettere interamente come operazione riflessa, pensata, mentale, intellettuale. Va da sé che così facendo, specie quando scrivo in dialetto, che è la mia lingua veramente materna (e paterna), e quando scrivo in poesia (che è forse la “vocazione” più mia, operazione così dotata com’è di densità, di sintesi, di impressività), non dirò già di sentirmi trasportato in un altrove che non conosco affatto (la mia “ghianda”, come direbbe Hillman), ma certo posso dire – senza presunzione – di sentirmi inquilino di uno stato di grazia, quantunque laicissima, domiciliato in una voce cui sento di appartenere. Ed è questa la gioia che la letteratura (la poesia) mi sa dare. La prosa, invece, è più, per me, operazione mentale, e non a caso passa attraverso la mia lingua seconda, che è il pur amatissimo italiano. Ecco dunque che da un lato sono venuti i trecentosessantanove sonetti di Vita dacant e da canté (Vita di lato e da cantare), e dall’altro è venuto un libro narrativo, di personale memoria contadina (la mia, anche qui: quella che ho vissuto in un paese del Piemonte meridionale nel passaggio epocale dagli anni cinquanta ai sessanta, principio di quel cosiddetto boom che ha scomposto molte cose): Gli zoccoli nell’erba pesante. Vale a dire un po’ da Olmi, un po’ da Yeats, ai cui versi l’ho rubato parafrasando. Nessuna nostalgia di seconda mano, nessuna volontà di canto d’amore, ma certo il racconto di un’infanzia polimorfa, di un grumo, di un nodo profondo che ho cercato di sciogliere compiendo il mio viaggio à rebours; ricucendone la traccia. Libro nato nel tempo, abbandonato e ripreso a distanza di anni, riscritto almeno una dozzina di volte e infine congedato in tutta la sua imperfezione di documento testimoniale. Un viaggio di ritorno (un nostos: ma non, lo ripeto, una nostalgia), e anche un viaggio di partenza, in una circolarità che segna il contatto della vita con la morte, come risulta dal finale che trascrivo: “Guarda ancora alla ciminiera (nel quadro di Maximilien Luce sono due) e pensa che l’agonia di un mondo – quello agricolo che sembrerebbe definitivamente perduto – è lunga più dell’agonia del sole./ Si attarda a mandare un ultimo saluto alla luna che rende tutto così labile, così fluido e lieve. Perché ora sa che la sua speranza resta viva; che il suo destino resta scritto in lui, e che lo chiama a onorare – definitivamente – ciò che gli spetta più di quello che gli possa (ancora) mancare./ Risale in auto e riavvia il motore. Poi, piano, parte, lasciando dietro di sé la scia di quella sua – in fondo – felice, educazione rurale”. Ecco, con la mia avventura, l’avventura di me che vado in cerca del mio lettore ideale, del lettore che sappia intendere non già l’eventuale ricchezza della mia pagina, ma la sua onestà, la sua – anche qui, e qui la congiunzione dei due pur diversi libri – urgenza, la sua “necessità”.

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